Quanto detto è stato attuato, in particolare,
inducendo l'erronea convinzione
che le lingue preunitarie dovessero
considerarsi semplicemente "dialetti",
intesi quali versioni regionali dell'unica
lingua degna di questa nome, il toscano,
ufficializzato come "lingua italiana".
Ma, a ben vedere, si è fatto strumentalmente
ricorso ad un'accezione del tutto
secondaria del termine "dialetto", che,
derivato dal greco diàlektos, ha il primigenio
significato di "discussione": basti
pensare che la dialettica è appunto l'arte
della discussione.
La differenza tra lingua e dialetto, in
effetti, è di ordine politico-sociale, non
linguistico. Il linguista norvegese
Binar Haugen (1906 - 1994) ha provocatoriamente
liquidato questa distinzione
affermando testualmente che:
"Una lingua è un dialetto con alle spalle
un esercito e una flotta".
Invero, il napolitano ed il siciliano
sono lingue romanze derivate - al pari
del toscano - direttamente dal latino.
Secondo una
classificazione
linguistica
piuttosto diffusa,
tali lingue
(toscana,
napoletana e
siciliana)
apparterrebbero
al ceppo
cosiddetto
dei "dialetti
centro-meridionali",
geograficamente
distinto
dal ceppo
dei "dialetti
settentrionali"
(suddistinti
in gallo-italici e
veneti) da
uno spartiacque
che si
ottiene tracciando
una
linea ideale
che parte da
Massa e finisce a Senigallia, più o
meno ricalcante la cosiddetta "linea
gotica".
A fronte di questa teoria, intesa a far
rientrare queste lingue in una cornice
comunque "italiana", vi è quella, di più
ampio respiro, sostenuta dallo svizzero
Walther von Wartburg (Riedholz,
Soletta, 1888 - Riehen, Basilea, 1971),
e più tardi ripresa dal tedesco Heinrich
Lausberg (Aquisgrana 1912 - Munsler
1992). Questi insigni studiosi di linguistica
dividono l'area in cui sono
parlate le lingue romanze in due grandi
settori: la Romània occidentale, nella
quale rientrano le lingue parlate nella
parte continentale dell'Italia geografica,
e la Romània orientale, che comprende,
tra le altre, le lingue parlate
nella parte peninsulare di quest'ultima,
nonché il corso ed il siciliano.
Va ricordato, a questo punto, che
l'abate Ferdinando Galiani, famoso
economista e letterato, nella sua opera
"Del dialetto napoletano", data per la
prima volta alle stampe nel 1779,
rivendica il primato della poesia in
"volgare" alla cosiddetta "scuola siciliana",
un movimento culturale formatosi
alla corte di Federico II di Hohenstaufen tra il 1230 ed il 1250. Principale
esponente di tale scuola fu Jacopo da
Lentini (1210-1260), che Dante nella
"Commedia" chiamerà "il Notaro"
(Purgatorio, Canto XXIV, 56). Questa
tesi è oggi unanimemente condivisa
dagli studiosi della materia, dovendosi
precisare che la lingua usata dai poeti
siciliani era in realtà il napolitano, detto
anche "pugliese" per essere all'epoca
la Puglia la più importante regione
del Regno. Alcune canzoni citate da
Dante nel De vulari eloquentia contengono
espressioni prettamente napolitane.
Galiani fonda il primato del napolitano
sulla presenza nella nostra lingua del
maggior numero di vocaboli di immediata
derivazione latina. Volendo fare
un solo esempio tra tanti, basti pensare
ai termini di cummare e cumpare, che,
con la sola elisione della lettera "t",
riproducono le espressioni cum matre e
cum patre, stando ad indicare coloro
che condividono con la madre e, rispettivamente,
con il padre, la responsabilità
dell'educazione del figlio.
D'altra parte, la stessa precedenza
data nella nostra cultura al nome proprio
rispetto al cognome affonda le sue
radici nella latinità. I romani, infatti,
individuavano la persona - nell'ordine -
con il praenomen, corrispondente al
nostro nome di battesimo, con il
nomen, che designava la gens di appartenenza,
ed infine con il cognomen,
equivalente al nostro soprannome.
La tesi del Galiani trova conforto
nella considerazione che i primi documenti
ufficiali
in "volgare"
sono i cosiddetti
"placiti cassinesi",
contenenti
dichiarazioni
giurate scritte in
napolitano, risalenti
al periodo
che va dal 960
al 963 ed aventi
ad oggetto l'appartenenza
di
certe terre ai
monasteri benedettini
di
Capua, Sessa e
Teano.
Con i re aragonesi,
poi, il
napolitano
acquista dignità
di lingua ufficiale,
sostituendo
il latino
negli atti e nei
documenti. Nei
secoli successivi,
pur rientrando il Regno nell'orbita
dell'impero spagnolo, si assiste nondimeno
ad una notevole produzione letteraria
in lingua napoletana, nell'ambito
della quale giganteggiano le figure
di Giulio Cesare Cortese (Napoli,
1570-1640), autore tra l'altro de La
Vaiasseide, e di Giambattista Basile
(Giugliano, 1566-1632), che ne Lo
cunto de li curiti ovvero Lo trattienemento
de li piccirilli raccoglie per la
prima volta le fiabe più celebri (da
Cenerentola alla ),
fiabe che ispireranno poi molti favolisti
della moderna cultura europea, quali
Perrault ed i fratelli Grimm.
Merita
di essere ricordato Andrea Ferrucci
(Palermo, 1651 - Napoli 1704), autore
della celebre Cantata dei pastori (1698), recitata nei teatri popolari nella
notte di Natale fino all'ottocento ed
in anni recenti rivisitata e rappresentata,
in particolare da Concetta e Peppe
Barra. Tra i poeti di lingua napolitana
troviamo anche Alfonso Maria de'
Liguori (Marianella, 1696 - Nocera
de' Pagani. 1787), il Vescovo poi canonizzato,
che scrive e musica il canto
natalizio Quanno nascette ninno.
Anche l'opera buffa muove i primi
passi, a cavallo tra i secoli XVII e
XVIII, in lingua napolitana. Un esempio
di questo genere è II trionfo dell'onore
di Alessandro Scarlatti (Trapani,
1660 - Napoli, 1725), scritta inizialmente
su libretto in napolitano, poi
italianizzato.
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