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Don Antonio 'o cecato


Giulio Mendozza ci accompagna in questo viaggio alla scoperta della posteggia napoletana.
Dopo averci parlato delle origini della posteggia e di alcuni grandi posteggiatori napoletani, in questo articolo ci parlerà del più famoso tra questi, don Antonio 'o cecato.


Anche se cronologicamente più antico, tra i tanti protagonisti della posteggia un personaggio mi ha colpito molto emotivamente. Si tratta di Antonio Silvio, detto Don Antonio ‘o cecato. Egli nacque cieco nel 1816. Fu benvoluto nientemeno che da Giuseppe Garibaldi, entrato a Napoli nel 1860 e che volentieri gli fece da padrino di cresima. Antonio Silvio aveva in repertorio le canzoni più in voga di metà Ottocento. Per far contento Garibaldi, sulla musica della canzone “Lo zoccolaro” adattò dei versi patriottici che divennero molto popolari in tutt’Italia. Il titolo della canzone fu “La bandiera a nocca”. Quando morì, il suo violino fu acquistato da Giovanni Capurro,  l’autore di “‘O sole mio”, come cimelio prezioso.

Voglio ricordarlo con parole non mie, ma riportando quanto Salvatore Di Giacomo dice di lui nel suo “Napoli: figure e paesi. Luci e ombre napoletane”. E’ una pagina molto tenera, che descrive, con lo stile incisivo del grande nostro Poeta e Scrittore, la vita gloriosa per un verso e tristissima per altro di Don Antonio ‘o cecato. Ma leggiamo ora Di Giacomo:

Don Antonio «‘o cecato»

Nel marzo del ‘93 scesero dall’ufficio municipale di sezione Porto quattro o cinque popolani del rione. Uno di loro, che aveva esattamente compiuto l’officio suo di testimone con gli altri, entrò nella bottega d’un tabaccaio e vi comprò un sigaro “napoletano”. Del tabaccaio era conoscenza vecchia: così questi stese la mano e strinse forte quella dell’amico il quale lo «onorava» dopo tanto tempo che non s’eran visti.
- Felice chi vi vede!
- Beato chi vi gode!
- E come da queste parti?
- Testimone per un atto di morte. Salute a voi, è morto don Antonio ‘o cecato.
- Uh! - fece la moglie del tabaccaio che, nell’angolo, allattava un bambino. - Puveriello!
Disse il tabaccaio:
- Quanti anni poteva avere?
- N’uttantina - rispose il testimone.
- Requia schiatta in pace - mormorò la tabaccaia.
- Amen! - disse, ridendo, il testimone.
Accese il sigaro e tornò a stender la mano al tabaccaio. Costui gli gridò appresso, mentre l’altro varcava la soglia della bottega:
- E fatevi vedere per cose più allegre!

Don Antonio ‘o cecato era nato in Napoli nel Vico Ecce Homo a Porto, il maggio del 1816. Suo padre era primo sergente ne’ cannonieri di Marina, sua madre faceva la cambiavalute all’ angolo del vico.
Il povero piccino era nato cieco. Quando divenne grandetto il sergente dei cannonieri gli comprò un violino, e Totonno imparò a suonare: e così, per diletto, si lanciò nell’ arte che poi gli doveva occorrere per campar la vita.
Era allegro - come sono molti ciechi nati -; era lungo lungo; gli mancavano l’esse, la g, l’elle, mezzo alfabeto; faceva ridere: il popolo ne fece una conquista preziosa e lo volle a ogni festicciuola di sgravo, di promessa di matrimonio, di battesimo.
Il violinista trovò due compagni indivisibili, un trombone e un ottavino: il trombone gli attaccò il capo di una corda a un buco del panciotto, si cinse dell’altro capo la vita e così sempre se lo trascinò dietro per i vicoli napoletani: l’ ottavino faceva da battistrada.

Dal 1836 al 1893 don Antonio suonò e cantò tutte le canzoni napoletane del mezzo secolo e fu l’antologia del pentagramma plebeo. Tra le preferite era Cicerenella, l’antica canzonetta, ch’è morta anch’ essa.
Si sbarcava il lunario; il trombone, prima del concerto, faceva al vicolo la presentazione e intesseva le lodi di don Antonio: tra l’altro lo indicava celibe «per necessità», e questo faceva molto ridere, con le mani sul ventre, le comari del vicolo.
Negli ultimi tempi suoi don Antonio non fu più visto in compagnia del suo conduttore e dell’ottavino.
Un bel giorno lo ritrovano sui gradini della «scala di San Giuseppe», stendeva la mano e chiedeva l’elemosina. Addio musica, addio violino, addio vecchie canzoni napoletane! Il cieco era stato abbandonato da’ suoi compagni girovaghi e aveva fame. Ad uno dei bottoni della sua giacchetta, costellata come un firmamento, pendeva ancora la cordicella che era servita all’ amico trombone per guidare don Antonio, come un cane, attraverso le viuzze e i vicoletti napoletani: l’indizio della schiavitù era ancora attaccato a’ suoi panni.
Chissà se un giorno - pensava il povero vecchio, mentre gli occhi suoi senza sguardo, bianchi e immoti nel loro cavo, percotevano invano la luce del giorno - chissà se un giorno il mio amico trombone non si ricordi di me! Se canterò un’ al­tra volta Cicerenella!
Forse così pensava: e sorrideva fra tanto di quel suo sorriso inebetito che portava in giro col suo violino e che scopriva una senile bocca screpolata, nella quale il suono fischiava attraverso gli ultimi denti e le parole non mai pronte si componevano faticosamente.

L’opera dello sventramento ha demolito una quantità di cose e don Antonio con esse. Don Antonio era una cosa. Quando volli - tempo fa - sapere, per bocca stessa del Paganini del vicolo partenopeo, la sua storia, e chiesi di lui ad alcuni popolani che gli avevano dato alloggio, costoro mi mandarono a dire: - Non v’ ‘o putimmo dà.
Dunque don Antonio era un oggetto, di proprietà di coloro che gli davano da mangiare e da bere, proprietà del popolo, che talvolta si dà di questi lussi. Seppi soltanto che l’ultima pubblica tornata - col “gentile concorso” del trombone che s’era rifatto vivo - don Antonio l’avea data in piazzetta Tagliavia, ove il Circolo di beneficenza della sezione S. Giuseppe offriva un pranzo ai poveri. Come costoro chie­sero di udir la musica e proprio chiesero di don Antonio, eccotelo che arriva, a metà del pranzo, in una “carrozzella”. Fu uno scoppio di applausi, pe’ quali il povero vecchio, che non era un concertista indurito, ebbe de’ gran lagrimoni agli occhi spenti.
Non suonò Bach, né Schubert, né Lézokonwsky. Suonò e cantò Ci­cerenella, la vecchia canzone popolare, con cui i nostri nonni ci han fatto saltar sulle lor ginocchia un po’ tremanti:

Cicerenella teneva nu gallo
e tutta ‘a notte ce jeva a cavallo . . .
Cicerenella teneva teneva
teneva na cosa, ma nun ‘o sapeva
...

E tutta la tavola dei mendicanti a ridere. Ridevano i bambini con la bocca piena, ridevano le vecchie donne, che nel rincorrere, quasi commosse, il loro passato, sentivano d’aver somigliato un po’ anch’esse a Cicerenella; i vecchi ascoltavano inteneriti, la folla de’ curiosi applaudiva, e dal violino screpolato, tra tutta quella miseria e quella vecchiezza, nell’allegra piazzetta Tagliavia, sotto il sole, pa­reva che si partissero a un tempo gridi di gioventù risvegliata e lunghi sospiri di rimpianto.
Qualcuno della folla trovò che don Antonio sbagliava il tempo e cercava invano di ricordar le parole. Era forse la commozione? Era il dolore? Erano gli anni? Chi lo sa?
E quello fu il canto del cigno ...

Se Emmanuele Bidera avesse conosciuto don Antonio, la costui figura non sarebbe mancata a quel libro così napoletano che quel brav’uomo compose nel 1844 e al quale somiglia un po’ questo po­vero libro mio. Nelle Passeggiate per Napoli e contorni il violinista avrebbe trovato dolce e buona compagnia de’ suoi tempi, e un tenero elogio d’un impressioni sta semplice e umano. Ma pare che il Bidera non l’abbia conosciuto. Peccato: ne avrebbe detto meglio di me ed avrebbe coronato l’interessante personaggio d’un lauro più odoroso e più folto.


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