Da qui puoi andare direttamente al contenuto principale

tre foto della campania e logo quicampania
icona per aumentare la dimensione dei caratteriicona per diminuire la dimensione dei caratteri

La posteggia napoletana



Giulio Mendozza ci accompagna in questo viaggio alla scoperta della posteggia napoletana. Ci parlerà, in primo luogo, delle origini della posteggia per poi passare a raccontarci dei più famosi posteggiatori, e tra questi, del celeberrimo Don Antonio 'o cecato.


Un'immagine della posteggia


Cos’è la posteggia napoletana? E’ un complesso musicale ambulante o anche il luogo dove si  ferma a suonare un complesso musicale.
La parola posteggia deriva, naturalmente, da “puosto” che è il luogo occupato da chi svolge un’attività che è rivolta al pubblico. I venditori ambulanti, ad esempio, occupano un posto fisso sulla pubblica via per cui è facile parlare di “ ‘o puosto d’ ‘o verdummaro” o di altri venditori.
Oggi non è facile trovare un gruppo di quattro o cinque persone che suonano ed uno di loro canta, così come nella tradizione dei posteggiatori. Oggi, in genere, la posteggia è costituita da una sola persona che suona, di norma, la chitarra o il mandolino e, nel contempo, canta. A volte i posteggiatori sono due.
Qual è il luogo preferito dai posteggiatori? Naturalmente, i ristoranti o i caffè.
Nel bellissimo “Novecento napoletano” ben condotto da Marisa Laurito, abbiamo ritrovato un gruppo di veri posteggiatori, tra gli ultimi della tradizione, dove la voce solista è quella del padre della cantante Valentina Stella.
La posteggia silenziosa di Così parlò Bellavista La posteggia silenziosa di Così parlò Bellavista
Nel film di Luciano De Crescenzo “Così parlò Bellavista” troviamo, invece, un solo posteggiatore che, armato di chitarra, rivolge sorrisi accattivanti ai commensali di una trattoria quando si accorgono di lui. Ad un certo punto si avvicina al tavolo e tira fuori dalla tasca un biglietto su cui è scritto: Non suono per non disturbare. Grazie. E ugualmente si guadagna la mancia ...
Bisogna dire che i posteggiatori sono stati sempre graditi dai forestieri, meno dagli indigeni. Eduardo De Filippo si dice che addirittura non li sopportava e, quando era a pranzo o a cena nei pressi di Palazzo Donn’Anna, con modi, diciamo, spicci intimava loro di allontanarsi.
Ed ora mi rivolgo ai maschietti. Anche noi, per analogia, abbiamo fatto la cosiddetta posteggia, non armati di chitarra e mandolino e senza canto. L’unico strumento era il cuore che batteva a tamburo. Da ragazzi, da giovanotti, quante volte ci siamo appostati sotto casa di una ragazza ore intere in attesa che uscisse? O sotto scuola o lungo la strada che lei normalmente percorreva? Che bei tempi! Allora erano i ragazzi a corteggiare le fanciulle che vezzosamente facevano le ritrose.


Le origini della posteggia napoletana


Ma quali origini ha la posteggia napoletna? Si perde nella notte dei tempi. Si pensi che nel Museo di Taranto si conserva una coppa del VI secolo avanti Cristo che ha una decorazione raffigurante un convito e dei giovani che allietano il banchetto suonando la lira. Così come un’altra coppa proveniente da Vulci – questa del V secolo avanti Cristo – raffigura accanto ad un giovane che regge un piatto, un ragazzo (o ragazza) che suona il flauto.
Queste coppe, dunque, appartengono alla civiltà greca.
Anche nell’antica Roma - e questo lo sappiamo bene perché riportato in una moltitudine di testimonianze scritte o in film di ambientazione romana - i patrizi, sdraiati sui triclini, mentre banchettavano, ascoltavano la lira.
Ma già ancor prima dei Greci e dei Romani si era soliti ascoltare la musica durante i conviti, così come presso gli Egizi.

Un documento scritto che specificatamente si riferisce ai posteggiatori è l’ “assisa”, o ordinanza, del 1221 di Federico II di Svevia contro i suonatori ambulanti che, di notte, esibendosi nelle taverne, disturbavano il sonno dei napoletani.
Anche Giovanni Boccaccio, che tra il 1327 e il 1339 soggiornò a Napoli, notò che vi fossero tali posteggiatori, quel Boccaccio, perspicace e attento, che penetrò nella psicologia del nostro popolo. E qui ebbe il suo bel tuffo al cuore in S.Lorenzo. A proposito di Napoli, il grande scrittore parlava “d’infiniti stromenti, d’amorose canzoni”.
Nel 1569 i posteggiatori costituirono nella chiesa di S. Nicola alla Carità una corporazione, una specie di sindacato, che garantiva giusti compensi, l’assistenza malattie e una degna sepoltura.
Nel ‘600 vi erano a Napoli, secondo la conta del Marchese di Crispano, ben 112 taverne. Tra i cantanti più noti vi era Pezzillo ‘e Junno ‘o cecato.
Nel ‘700 spiccavano come luoghi di posteggia le “pagliarelle dello Sciummetiello” e la Taverna delle Carcioffole al Ponte della Maddalena dove si leggeva la famosa quartina:

Magnammo, amice mieje e po’ vevimmo
nzino a che nce sta ll’uoglio a la lucerna;
chi sa se all’autro munno nce vedimmo;
chi sa se all’autro munno nc’è taverna
”.

Nel mondo antico e, segnatamente, in quello classico dominava la musica rituale o religiosa. L’unica alternativa era, dunque, la cosiddetta “musica da tavola”.
Diversi musicisti destinati a lasciare traccia della loro arte, ove non riuscivano ad occupare un posto di “maestro di cappella”, si mettevano al servizio di nobili e, per una minima ricompensa, diventavano “musicisti domestici”.
Anche Mozart seguì questa trafila, ma nel 1781 egli, dimettendosi da “musicista domestico”, mentre a Salisburgo era al servizio dell’Arcivescovo Colloredo, automaticamente inaugurava una nuova stagione, quella dei “musicisti professionisti”.

All’epoca, già da tempo a Napoli, come abbiamo prima rilevato, dilagavano i nostri posteggiatori che non erano al servizio di nessuno e che venivano liberamente ricompensati dai fruitori della loro musica. Infatti, i posteggiatori, dopo la loro esibizione, “andavano per la chetta”, cioè giravano fra gli avventori con il famoso “piattino”. L’offerta non era intesa come un’elemosina, ma come un riconoscimento,  anche se fatto di spiccioli, all’arte. Meglio la libertà che essere sottoposti allo stipendiuccio di un padrone.
I posteggiatori napoletani, inoltre, davano la possibilità a tutti, non solo ai patrizi, di usufruire delle loro prestazioni.

Prima di citare i nomi dei più celebri posteggiatori napoletani, mi piace ricordare che essi usavano un gergo tutto proprio, la cosiddetta “parlesia”, incomprensibile anche agli stessi napoletani. Ad esempio, il pane era chiamato “illurto”, l’avaro “schiancianese”, il pollo “pizzicanterra”, la chitarra “allagosa” o “ ‘a cummara”, il mandolino “peretta”, il violino “tagliere”, i soldi “ ‘e bane”, il vino “chiarenza”, i seni femminili “ ‘e tennose”.


(continua...)

INVIACI UN COMMENTO

Aspettiamo i tuoi suggerimenti, le tue critiche, i tuoi commenti!


SEGNALA AD UN AMICO

Se il sito o un articolo ti sono piaciuti, perchè non dirlo ad un amico?