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Stili e registri del canto maschile napoletano



Antiche incisioni discografiche ci mostrano la prevalenza, nei primi decenni del 900, dello stile che potremmo definire "tenore leggero con tendenza al falsetto". Si tratta di voci sottili, di testa, che spesso entrano in registri acuti di timbro quasi femminile (detto, appunto, "falsetto").
Il già dimostrato carattere maschile (stavo per dire "maschilista") dei testi cozza un po' con queste vocine leziose e manierate, forse parenti povere delle prodigiose voci sopranili dei castrati settecenteschi. La "vocina" in pezzi vivaci e scherzosi può dare gradevoli risultati espressivi, ma nei brani a carattere fortemente passionale risulta inadeguata e raggiunge, a volte, le soglie del ridicolo.
Pino Daniele Pino Daniele
Un esempio estremo di voce sottile sta, oggi, nello stile di Pino Daniele che però, scrivendo da sé i suoi brani, riesce a valorizzare il suo timbro vocale in modo originale e personalissimo.
Altro stile –stavolta veramente intramontabile- è quello del "baritono spinto", che potremmo definire anche del "vocione" (Arturo Testa, Nunzio Gallo, Bruno Venturini). Il baritono canta nell'estensione centrale, quella –per così dire- naturale ed è la voce maschile per eccellenza (anche se il tenore, proprio per le sue forzature, risulta più "spettacolare").
Per poter ben sviluppare il registro di baritono occorre comunque studio ed esercizio; è una voce "colta" ma che ben si adatta a tutto il repertorio napoletano. Lo stesso si può dire, ma con qualche riserva, del "tenore drammatico" (o "tenore-lirico"). La potente irruenza di questa voce rischia spesso di snaturare l'intimismo di certe melodie limitandosi a un mero sfoggio di mezzi tecnici privo di partecipazione emotiva. Ci vuole la sensibilità di grandi tenori per cantare il repertorio napoletano senza tradirne lo spirito musicale più profondo. Tre nomi su tutti: Caruso, Di Stefano, Del Monaco.
Tutti gli stili (sarebbe meglio dire "i registri") di cui abbiamo parlato sinora sono perfettamente catalogabili in quanto desunti dal melodramma o dall'operetta. Sono voci che hanno bisogno di essere "impostate" e coltivate; non bastano le doti naturali.
A un certo punto, però, quando la canzone napoletana è diventata genere assolutamente a se stante, è venuta fuori l'esigenza di sentire voci nuove, nuovi –e meno etichettabili- modi di cantare, anche perché il genere si era diviso in sottogeneri precisi e diversificati.
Nino Taranto, Carosone e Di Giacomo Nino Taranto con il grande Carosone e Di Giacomo
E' nata, così, per il genere buffo e la macchietta, la "voce ammiccante" (Nino Taranto, Aurelio Fierro, Vittorio Marsiglia); per la canzone di malavita e la sceneggiata, la "voce-straziata" (Mario Merola) e, per il repertorio tradizionale, lo "stile-confidenziale", che si pone sul versante opposto di quello occupato dai tenori lirici. Abbiamo qui voci calde e modulate, parole molto scandite, andamenti ritmici piuttosto rallentati e accompagnamenti strumentali limitati spesso all'impiego della sola chitarra.
Teddy Reno, Fausto Cigliano e –ovviamente- Roberto Murolo sono i rappresentanti principali di un "movimento" che, tutto sommato, ha fatto scuola, visto che ancora esiste la figura del cantante-chitarrista "confidenziale". Questo stile, in qualche misura influenzato dalla musica leggera degli anni 40 e 50, ha avuto il merito di avvicinare alla canzone napoletana un pubblico più esigente e raffinato. Un pubblico, però, abbastanza circoscritto e minoritario rispetto alla grande massa degli appassionati (siano essi cantanti professionisti, dilettanti o semplici fruitori).
La vera rivoluzione nel modo di cantare in napoletano la dobbiamo a un uomo solo, estraneo a mode o movimenti e forte soltanto del suo timbro naturale e della sua particolare sensibilità: Sergio Bruni. Ne parlerò nel prossimo articolo.    

                  

a cura di Giancarlo Sanduzzi

 

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