II
Nelle chiacchiere tra forzati dello studio (appartenevamo alla nuova scuola dell’obbligo), chiamavamo i professori “la Cosentino”, “l’Ermenegildo”, “la Coppola”, senza degnarli dell’appellativo cortese di “signor” o “signora”. La prima insegnava storia declamando a voce alta, la seconda era una bionda elegante che veniva a fare lezione di francese dalla panoramica via Petrarca; Anna era la professoressa di italiano, latino e geografia.
Era anche la mamma di Ettore Coppola, mio buon amico. Di Ettore devo riferire che, non volendo mescolare i due ambienti (famiglia e ginnasio), non frequentava la nostra scuola e non ha mai studiato dove insegnava Anna. Si sobbarcava una discesa fino a via Piave, ai confini del Vomero, e là resisteva come tutti quanti noi.
III
Mi chiedo se l’insegnamento, una professione logorante, non abbia in parte contribuito alla malattia. Ma ai tempi a sentirmi logorato ero io, terrorizzato all’idea di essere interrogato da Anna Coppola. Quando apriva il registro nelle prime ore del pomeriggio (avevamo i doppi turni), la digestione si bloccava. Se invece era mattina, il mal di pancia produceva fitte lancinanti e il bidello doveva telefonare a casa perché venissero a prendermi, in preda a una colica. È successo un paio di volte e ora so che si chiama “paura della paura”.
Quando apriva il registro, dico, non volava un mosca: tutti ad augurarsi di non sentire il proprio nome scandito nel silenzio. Il mio, naturalmente, suonava il più macabro di tutti. Ho l’impressione che Anna lo pronunciasse “Lipp”, senza l’ultima vocale. Diceva: “Lipp” e io dovevo andare, come un altro deve affrontare la linea del fuoco. A quell’epoca pregavo il Signore con il voi, e forse non mi rivolgevo neppure a Domineiddio ma a un collegio di Signori del tempo. Dicevo: “Fatemi vedere quando sarà finita”. Significava fate che io sia già oltre l’esame, a interrogatorio terminato, fatemi perdere coscienza di tutto quello che sta nel mezzo. Se sapevo la lezione, come qualche volta sarà pur capitato, andava tutto liscio. Se non riuscivo a rispondere erano guai, perché Anna era severa in un suo modo sarcastico. Sfoderava un sorriso a labbra piegate e prendeva un tono tagliente che s’incideva nella memoria, mettendo in risalto tutta la mia neghittosità: “Gioia, gioia”, erano le prime parole di scorno, “profumo di primavera…!” Gli epiteti affettuosi (“gioia” ripetuto due volte, “profumo” ecc.) stridevano con il tono in cui venivano pronunciati, che era pericoloso. E se l’interrogatorio fruttava una risposta grossolana, o peggio il silenzio, lei rideva senza allegria, incalzando: “A questo stato sta la chiesa?”, volendo dire, siamo ancora così ignoranti?
Anna non si scomponeva facilmente. Preferiva irridere l’insipienza, mettere una maschera fredda, tirando fuori l’assurdo della situazione. Più che sgridare, amava sfottere. Aveva una di quelle intelligenze che non tollerano la scusa, il piagnisteo, lo sciopero della vitalità. Se la risposta giusta era una su due, capitava che l’interrogato, sballata la prima, si precipitasse a fornire la seconda. Lei lo guardava come una gattona e diceva, facendo le fusa: “Eh, se non è zuppa è pan bagnato…”. Nei suoi occhi brillava un lampo di malizia, perché l’aula non è un territorio neutro ma il luogo di una lotta senza quartiere tra studenti che non hanno voglia di faticare e insegnanti che devono farli rigare dritto. Entro questi limiti, ogni tiro è permesso e Anna sapeva di avere vinto un altro round, colpendo un filo sopra la cintola.
I miei compagni di scuola che leggeranno queste note vorranno ormai vedere scorrere il sangue, e io non li deluderò: il sangue corse copioso, posso testimoniarlo personalmente. In prima o in seconda media ebbi una visione spontanea di me stesso crocifisso a una parete della “Belvedere”, con i calzoni corti e al centro del corridoio, mentre gli altri ragazzi sfilavano sotto di me in una sorta di processione. Faccio notare che non avevo ancora visto La ricotta di Pasolini, con il suo ladrone morto in croce ma d’indigestione; in seguito l’ho visto, ho preso una cotta per quel film e dopo un po’ mi è anche passata. Il che significa che dopo tre anni si risorge e si va altrove, si scopre che le piaghe dal costato sono rimarginate e che la morte era soltanto una prova.
Per andare d’amore e d’accordo con i potenti della scuola sarebbe bastato studiare con profitto (avrebbe detto l’esperto in battute ovvie, Massimo Catalano); ma a quell’epoca non tenevo in nessun conto la mia istruzione. Dirò di più: non ero disposto a prendere il mio posto in società e sentivo che, nonostante il travestimento intellettuale, la scuola prefigurava il mondo della fatica materiale. Questo era evidente dal fatto che lo stato ti obbligava a imparare: una cosa inammissibile, a mio avviso, una volta superata la soglia dell’istruzione elementare. Nato “signore”, qualunque cosa questo significasse nel 1964, preferivo istruirmi a casa e da solo, naturalmente in quello che più gradivo: romanzi di fantascienza, cinema e fumetti. Un po’ di musica. Un po’ di chiacchiere con gli amici. A scuola ricordo che m’interessavano soltanto l’epica e i temi scritti. La mia non era semplice pigrizia, benché ne avessi una riserva federale: era la ferma opposizione al dovere nel mondo extramurale.
IV
Ma c’erano anche motivi irrazionali. In un diario dell’epoca trovo la seguente confessione: “Anche mia madre insegna! Al mattino, quando mi sveglio, non la vedo perché parte molto presto. Questo fa sì che mi senta spaesato, infreddolito e solo quando vado a scuola. Mi manca il materno calore… Come vorrei che potessi starmene in panciolle, come vorrei non studiare!” La relazione è chiara: dovere scolastico = mancanza di protezione. Al penoso tragitto per andare da casa all’ex-convento dedicai una poesia: vi parlavo della scuola come un posto di lavoro, accennavo al “gelo senza fine” dell’alba e al “ghiaccio ostile” nei cuori e sulle facce della gente. Inutile dire che le immagini si riferivano a una temperatura interiore, non a quella del meridiano di Napoli… Anni dopo avrei solidarizzato con Gian Maria Volonté quando definisce gli scolari “operai piccoli” (ne La classe operaia va in paradiso).
Forse in quel periodo soffrivo davvero la lontananza dei miei. Una delle ragioni per cui Anna era irritata con il mio entourage, era che mia madre non andava mai a colloquio. Questo si doveva al fatto che insegnava fuori Napoli, a Castellammare di Stabia: ergo, niente appuntamenti con i professori del figlio. Finalmente una volta ci andò e fra le due donne scoccarono scintille; mia madre cercava di spiegarsi, Anna inarcava le sopracciglia come davanti a un’altra studentessa, costituendosi parte civile: “È così che si cura del suo ragazzo?”. In seguito, uno zio fu delegato a parlamentare e con lui Anna fu sempre squisita.
In prima media, l’annus terribilis, dovetti assentarmi parecchio tempo per fare un’operazione al braccio e tornai a scuola ingessato dal petto in su. L’assenza prolungata non mi aiutò e fu quello l’anno in cui venni rimandato in italiano e matematica. Dopo, non mi è più capitato. A settembre riparai egregiamente e capii una cosa fondamentale: non avrei potuto non studiare almeno un po’. Anna Clementi non l’avrebbe permesso, la professoressa di matematica non l’avrebbe permesso. Dovevo ingegnarmi. Non lo feci per amore del sapere ma per non essere bocciato: in fondo, i miei datori di lavoro avevano raggiunto lo scopo. Mi si chiederà se, ai bei tempi, avessi mai provato un qualche senso di colpa, ad esempio per non aver studiato. Come per Alex in Arancia meccanica, la risposta è no: piuttosto di autocommiserazione e smarrimento. Sapevo di non aver ottemperato a qualche astratto dovere, ma alla fin fine, cosa si pretendeva da me? Una domanda che fa girare la testa ancora oggi, e a cui solo la macchina coercitiva avrebbe trovato una risposta.
V
Le lezioni erano punteggiate di episodi curiosi. A volte Anna recitava in dialetto napoletano e in una di queste occasioni ci invitò ad apprezzare la voce verbale “schizzichea”, pioviggina, usata da Salvatore Di Giacomo. Sosteneva che nessuna parola italiana avesse un simile colore. Norberto Maggesi, che era di Lucca, si ribellò. Un’altra volta Anna interrogò un mio compagno su un brano contenuto nell’antologia. Il passo s’intitolava “La resa dei conti” e il compagno non sapeva riassumerlo affatto. Anna lo sfotté: “Embe’, che cos’è questa Resa dei conti? Un film?” Apprezzai il riferimento al western di Sergio Sollima con Lee van Cleef e Tomas Milian, uscito quell’anno. Il Vomero era pavesato di locandine e ogni allusione cinematografica era per me aria buona, vita vera. (Anna andava al cinema? Voglio dire, prima che il marito si ammalasse. I ragazzi gliene davano il tempo? Che film preferiva? Quali libri leggeva? E perché mandava gli auguri al re, se aveva votato PCI alle politiche?) Una donna di cinquant’anni del 1966 doveva lottare senza smettere mai, a scuola e in casa, badando ai figli e al marito; immagino il suo dolore quando lo perdette, e chissà se avrà pensato ai suoi alunni, a me, in un momento delle sue giornate. A scuola aveva il potere, che è una cosa importante, ma fuori? Come avrà giudicato i piccoli cristiani che andavano da lei a imparare un po’ di analisi logica? Omettini in riga da trent’anni, una fila lunghissima di piccole donne a cui aveva tolto il latte dalla bocca e i vezzi dal cervello…
A me, per esempio, ne ha tolto uno curiosissimo. A quell’epoca, oltre a mettere il puntino anche sulle I maiuscole, firmavo i compiti scrivendo sotto il nome: Classe (media) I° H. Lei capì che c’era sotto un rito, un papocchio linguistico/scaramantico, e mi fece notare l’assurdità della formula, scoppiando a ridere. Bastava Prima H, evidentemente, e quella risata complice, da amica, mi guarì dall’inopportuna parentesi. Se mi avesse tenuto con sé qualche anno ancora, mi avrebbe raddrizzato a modo suo (magari con la collaborazione di mio nonno, altro inflessibile). M’avrebbe levato la pelle, prima sarcastica e poi bonaria, inculcandomi che bisogna pur sapere qualcosa. Che le attese messianiche della diva fantascienza vengono dopo, e magari son fesserie. E i fumetti? Va bene, va bene, ma non perdere troppo tempo, con i fumetti. (“Di’, non ti piace nessuna delle compagne di scuola? Embe’?” I suoi occhi azzurri, i suoi capelli biondi parlavano di vita vissuta, non immaginata…) Ma avrebbe trovato in me un irriducibile, un tipo che, se non è costretto a frustate, non si applica, non “rende” e continua a girare la testa dall’altra parte. Chi avrebbe vinto, alla fine? Una cosa è certa, i primi tre round sono stati suoi.
Per concludere, ricordo che una volta ci diede un tema bellissimo. Adoravo scriverli, e in fondo considero questo articolo l’ultimo dei compiti in classe assegnatimi da Anna. La traccia diceva: “Immagina di essere un giornalista e scrivi un’intervista con un personaggio della storia”. Io scelsi Polifemo, dunque metastoria. Feci l’intervista, decisi che era ora di provarci e per la prima volta spostai la firma in calce come si fa sui giornali, così:
Giuseppe Lippi