Da qui puoi andare direttamente al contenuto principale

tre foto della campania e logo quicampania
icona per aumentare la dimensione dei caratteriicona per diminuire la dimensione dei caratteri

Avevo cinque anni e mezzo



23 novembre 1980 ore 19 e 35

di Francesco di Sibio



Credevo che se si fossero ripetute le stesse cose di quella sera, allora anche l’evento sismico ci sarebbe stato di nuovo. Così, soprattutto la sera andando a letto, mi facevo il riassunto di ciò che fosse successo, con quali giocattoli avessi giocato, cosa avessi mangiato… e, se riscontravo delle similitudini con quel giorno, mi prendeva una strana ansia e faticavo a prendere sonno. Mi capitava spesso di avere problemi nell’addormentarmi, cosa che sarebbe passata definitivamente abbastanza in fretta, e allora cercavo di controllare il respiro, perché mi ero accorto che se il cuore batteva troppo in fretta, non mi sarei mai addormentato.
Certo la ricerca di similitudini era la convinzione di un bambino, ma più volte ne ho sentito parlare e preoccuparsi per il ripetersi di situazioni avvenute quella sera di novembre. Diverse persone negli anni mi hanno raccontato di un caldo strano per quei giorni che correvano verso l’inverno e che in passato avevano già regalato la prima neve. Poi c’era una luna particolare, tinta d’arancio o di rosso, a seconda della persona che ricordasse. Lo scirocco e l’umidità potrebbero tranquillamente spiegare questi fenomeni, ma a distanza di decenni vengono ancora associati a quella triste sera, come lugubri presagi di qualcosa di catastrofico.
Di recente ho visto alcune immagini che raccontano il vero sisma. Paesi rasi al suolo, famiglie distrutte, bare che non bastano per i tanti morti…, e una foto in particolare: due fratellini sepolti nelle stesse tavole di legno davanti agli occhi del padre, unico superstite della famiglia. Immagini, scatti, fotografie di quei giorni, così come lo è la vecchia Conza; vecchia perché il centro abitato è stato abbandonato per costruire il nuovo insediamento urbano più a valle, a pochi chilometri di distanza. La vecchia Conza è là come una foto appesa al muro, un’istantanea scattata con tutto il suo disastro intatto.
Parlo di vero sisma, perché negli occhi ho i ricordi di un bambino che ha vissuto a modo suo i mesi che seguirono e che a volte viveva come un gioco tante vicissitudini.
Quella stessa sera fummo portati sotto il condominio di via Limiti, di fronte al ristorante. Io e mia sorella entrammo in una Fiat 127 verde e vi rimanemmo per qualche ora. La paura era tanta soprattutto negli adulti e non si capiva se le nostre case fossero sicure. In tanti erano confluiti spontaneamente lì; c’era un gruppo di automobili in cui si erano sistemati anziani e bambini e gli altri erano tutti fuori a parlare, a raccontarsi come avevano vissuto quei lunghi secondi di paura, a farsi coraggio, a confortare chi era avvinto dal panico. Dopo un po’giunse anche mio padre, che con non poche difficoltà era riuscito a chiudere il bar e tornò lungo via Limiti per evitare il centro storico in cui ci potevano essere crolli di parti di edifici. Ricordo la chiave del portone del locale. Era una di quelle chiavi antiche, lunga una quindicina di centimetri e col tempo aveva assunto una strana rotazione della parte dentata, che non impediva il suo giusto uso.
Io e la mia famiglia rientrammo in casa. Era considerata sicura, almeno il piano terra, visto che l’anno precedente eravamo rientrati dalla Toscana dove ero nato e dove i miei genitori avevano lavorato. Gli ammodernamenti fatti e ultimati pochi mesi prima, ci permisero almeno di non trascorrere la notte all’addiaccio, cosa che in tanti dovettero subire e non solo per quel giorno. Io ero il più piccolo della famiglia, e insieme a mia sorella Franca, dividevo il posto più comodo a disposizione: una poltrona. I miei genitori, mia nonna e qualche vicino stavano sulle sedie poste lungo le pareti della stanza e sembrava una strana veglia, anche se tutti cercavano di riposare per quel che era possibile, visto che ormai era notte e non si conosceva ciò che la luce del mattino successivo avrebbe portato con sé. La presenza dei vicini fu costante per diversi giorni e per noi bambini fu una felice novità. Eravamo sempre al centro di premure e attenzioni ed era facile trovare spunti per giochi, o persone che si intrattenessero con noi. Avevo cinque anni, anzi ne avevo cinque e mezzo, visto che a quell’età la voglia di crescere è tanta e ancor più grande è la voglia di realizzare le infinite cose che gli adulti rimandano a “quando sarai grande”. Così ogni scatto percettibile del tempo che passa, va sottolineato e anch’io vantavo il mio mezzo anno in più con tutte le persone che mi chiedessero l’età. Tra i vari ospiti di quell’improvvisato albergo ricordo Maria ‘la sarta’, che per molti anni sarebbe venuta a casa nel pomeriggio per recitare il rosario con mia nonna, Michele ‘lo spazzino’, che era sempre attivo e sorridente, e sua moglie Concetta. Anche se col passare dei giorni piano piano le persone tornavano nelle proprie abitazioni, che erano state nel frattempo dichiarate agibili, l’intero arco della giornata lo si passava assieme.
Il mattino dopo andammo al bar e trovammo ciò che già ci aspettavamo: niente era al suo posto. Le bottiglie, che erano sugli scaffali, giacevano sulla pedana dietro al bancone e il pavimento era ricoperto da vari oggetti e merce. Tutti parlavano del palazzo municipale, dicevano che fosse crollato. Allora io mi feci coraggio e raggiunsi l’ingresso della piazza e da quella prospettiva vidi un’immensa quantità di pietre gigantesche poste a casaccio una sull’altra. Non conoscevo ancora il significato del verbo ‘crollare’ e lo stavo imparando in quel momento. Stranamente del municipio non ho ricordi precedenti, di quando dominava la piazza ed era il cuore pulsante del paese, visto che oltre agli uffici comunali ospitava l’ufficio postale, la pretura, un circolo ricreativo… Ricordo  solo quelle macerie e il silenzio che le pervadeva. Nella parte posteriore dell’edificio, verso piazza Baracca, c’era il carcere. Vi erano delle celle per detenuti in semilibertà. Di giorno uscivano per recarsi a lavoro, la sera ritornavano in cella per pernottare. Tante volte ho sentito narrare ciò che accadde lì quella sera. Quando la terra iniziò a tremare, un addetto alla sorveglianza si precipitò ad aprire le celle, per far uscire i detenuti. Riuscì nel suo intento, ma lui rimase indietro e finì sotto le macerie. Era giovane, e sia a Frigento, luogo di lavoro, sia a Sturno, paese natale, ci furono diversi giorni di commozione per l’accaduto.

Si decise di ricostruire il municipio più a valle. Era ormai il 1984, iniziavano i lavori di scavo per le fondamenta di queste nuove strutture,  noi avevamo trasferito il bar all’interno di un prefabbricato di legno, per consentire la ricostruzione del vecchio locale. Spesso giocavo là fuori, in piazza Baracca, tra la zona dove sorgeva il vecchio municipio e quella in cui sarebbe sorto il nuovo. Passavo il tempo calciando il mio pallone supertele  contro il muro delle scuole elementari. Per la mia imperizia di calciatore e per le qualità proprie del pallone (chi ha giocato con un supertele sa che erano palloni leggerissimi e che assumevano degli strani effetti e spesso prendevano direzioni non volute) capitava che la sfera andasse di sotto, proprio all’interno del cantiere. Andavo a recuperarlo, a volte mi aiutavano i pazienti muratori, ma due non riuscii a recuperali e mi capita di pensare, guardando a distanza di anni quegli edifici bianchi, che sotto, all’interno delle loro fondamenta, ci sono due miei palloni, uno rosso e nero, l’altro nero e blu, o ciò che ne rimane.
Per sei anni circa il nostro bar è stato itinerante. Più volte abbiamo dovuto trasferire l’attività per l’inagibilità dei locali, poi per consentirne la ricostruzione. La prima tappa è stata casa nostra. Nei mesi seguenti il sisma la stanza al piano terra fu attrezzata a locale commerciale. Una caratteristica conservata anche in tali condizioni era quella di essere il posto telefonico pubblico e, in tempi in cui si vivevano le conseguenze di un sisma catastrofico e l’avvento del telefono cellulare era lontano anni luce, quella era per molti l’unica possibilità di contatto con  l’esterno. C’era chi telefonava per tranquillizzare i parenti lontani e per spiegare come si stessero evolvendo le cose, poi c’erano i volontari, i soldati dell’esercito che venivano per telefonare ai propri familiari e alle fidanzate. Noi, visto che non era stato possibile trasferire anche la cabina che dava maggiore privacy, ci allontanavamo il più possibile, o ci impegnavamo in altre faccende per cercare di offrire più intimità possibile a chi stesse telefonando. Dei soldati conservo alcune immagini. C’era un accampamento con tende nella villa comunale. Ricordo questi giovani, forse quasi tutti militari di leva, nelle loro uniformi verdi, con i berretti e gli anfibi, che pensavo fossero ideali per la neve che aveva già iniziato a coprire tutto di bianco. Un giorno ne incontrammo alcuni lungo via Limiti, noi giocavamo nella neve, e loro ci donarono dei cubetti di cioccolata fondente. Uno di loro aprì il taschino sul petto, prese una confezione rossa e me la offrì. Naturalmente noi eravamo contentissimi e non la smettevamo più di ringraziare.
Ricevemmo tante dimostrazioni di solidarietà. Di tanto in tanto giungevano volontari da tutte le parti d’Italia e recavano con loro oggetti di vario genere che potessero occorrere nella nostra situazione. Un giorno si fermò un’automobile in alcuni punti del paese, la gente si radunò lì intorno, due persone distribuirono stivali chiedendo la grandezza necessaria. Io ebbi un paio di doposci; quell’anno ne avemmo davvero bisogno. La coltre bianca aumentava la nostra gioia di bambini ignari, ma moltiplicò anche le difficoltà di chi aiutava e di chi voleva ritornare al più presto ad una vita normale. Nel periodo natalizio passò un furgone carico di giocattoli. Tutti i più piccoli presero d’assalto i volontari e in cambio ognuno ebbe un dono. Si prendeva a casaccio nel mucchio, l’unica distinzione era fatta in base al fatto che a riceverlo fossero mani di maschi o femmine. Io ebbi un casco e vagai per diverso tempo dentro casa con tale copricapo, fingendomi un motociclista, o un pilota da rally, a seconda del gioco.
In seguito al terremoto dell’Irpinia viene datata la nascita della Protezione Civile Italiana in una forma più organizzata e pronta ad ogni evenienza. Quella volta ci furono tante difficoltà: i soccorsi che non giunsero tempestivi, mancanza assoluta di coordinamento, paesi di mille abitanti con una fila da esodo biblico di materiali e volontari che vi affluivano e una miriade di centri bisognosi di tutto che aspettavano invano. Subivano l’effetto pubblicità. Sui giornali e in televisione si parlava dei soliti due o tre paesi, naturalmente era impossibile l’elenco delle centinaia di centri colpiti, ma chiunque volesse partire per offrire la propria disponibilità, si incamminava verso Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Balvano.
Comunque si sentiva la presenza dello Stato. Iniziarono ad arrivare tende roulotte, prefabbricati, più altri oggetti per la vita di ogni giorno. Il concetto di Stato, come si sa, è astratto, quindi bisognava individuare una figura concreta che potesse rappresentarla. Unanimemente si scelse Giuseppe Zamberletti, Commissario straordinario del Governo per il dopo sisma.
Divenne quasi una figura mitica, ma presente. Ricordo delle stufe a cherosene di colore verde militare, che servirono a riscaldare, per quel che fu possibile, i nostri alloggi. Rivedendone una ad anni di distanza, chiesi alla proprietaria con disarmante semplicità – chi te l’ha data, Zamberletti?-
E lei mi rispose tranquillamente – Sì!-.

Un pugno di interminabili secondi cambiò la vita di interi paesi, sconquassò la tranquillità di molti. Tutto fu diverso. Alla televisione stavano trasmettendo il secondo tempo della partita Inter-Juventus, a quel tempo non c’era la diretta della Serie A su televisioni a pagamento, anzi queste ultime non c’erano neanche. Anche la nostra televisione in bianco e nero era sintonizzata sulla differita del cosiddetto derby d’Italia. Ero seduto a tavola, era un tavolo rotondo, attorno al quale vi era anche mia sorella. Era tutto pronto per la cena. Erano le 19,35 di quella domenica di novembre. D’un tratto il carrello che sosteneva la televisione iniziò a muoversi verso sinistra e poi verso destra, andando a sbattere più volte contro la cristalliera e il muro che ne limitavano la corsa. Il tavolo sotto i nostri gomiti si alzava ritmicamente prima da un lato, poi dall’altro per buoni dieci centimetri. Mia madre aveva i piatti in mano e faticò non poco nel mantenere l’equilibrio.
Quando tutto si calmò, giunse anche mia nonna dalla sua stanza e fece una domanda di cui già sapeva bene la risposta - Era il terremoto?-. mia madre rispose negativamente, per non spaventarci, ma non sapevamo il significato di quella parola, e, per fortuna, avevamo vissuto l’accaduto come qualcosa di strano, ma forse anche divertente. Mi ripassavano davanti agli occhi, infatti, le immagini di quella televisione impazzita, che non voleva stare ferma e mi veniva anche da ridere.
In fretta ci presero in braccio e ci portarono fuori di casa.

Quel terremoto lo teniamo dentro. A volte non mi va di parlarne, specie se chi mi è di fronte non ha vissuto quegli istanti e gli anni che sono seguiti. Penso che non potrebbe capire. Altre volte lo racconto come ora, così come l’ho vissuto, quasi come un gioco.
Da diversi anni non credo più che se si ripetessero le stesse cose accadute quella sera, anche l’evento sismico si ripeta di nuovo. Gli anniversari si susseguono e una infinità di ricordi, ogni tanto, mi ritornano alla mente.

INVIACI UN COMMENTO

Aspettiamo i tuoi suggerimenti, le tue critiche, i tuoi commenti!


SEGNALA AD UN AMICO

Se il sito o un articolo ti sono piaciuti, perchè non dirlo ad un amico?