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Via Limiti

di Francesco Di Sibio

 

 

Gli alberi sotto al muretto sono cresciuti e impediscono la vista del panorama. Ora è inverno, i rami sono senza foglie e le luci lontane nel buio di questa sera fredda riescono a farsi vedere. La temperatura bassa non mi fa stare fermo e il panorama cammina insieme a me. Sono solo, ma non è una buona scusa per non andare a camminare lungo Via Limiti.
Legati a questa strada non sono solo ricordi, ma è una intera esistenza, è parte di me. E’ stato il luogo verso cui scappare per giocare insieme agli amici. Nel punto più largo ci fermavamo a giocare col pallone, quando in paese non c’era ancora il campo di calcetto e ogni strada, piazza o muro senza finestre era buono per tirare calci al pallone. Se c’erano delle ragazze si giocava a pallavolo, ma in ambedue i casi immancabilmente il pallone finiva di sotto e chi l’aveva tirato era costretto a una lunga rincorsa in discesa per evitare che si allontanasse maggiormente.
E’impossibile contare le volte che l’ho percorsa con la bicicletta. Facevamo delle finte corse e per la mountain bike ci inventammo un microscopico percorso sull’erba intorno a lampioni e alberi.
Ci fu un periodo dedicato alla lettura. Ero più grandicello e nei pomeriggi estivi mi portavo un romanzo da leggere sopra una panchina, ma mi dovevo fermare una infinità di volte per spiegare cosa stessi leggendo alle varie persone che facevano la passeggiata postprandiale. Ad un certo punto era quasi una moda: diverse panchine erano affollate da giovani intenti a leggere e io ero un adepto, di certo non l’ideatore.
Visto che il lavoro divide le strade, il mio appuntamento classico per rincontrarsi con amici è fare una passeggiata lungo i Limiti. Con Gianfranco, che lavora a Milano, è più un’intenzione che altro, con Luigi, invece, ci si incontra spesso e la passeggiata è più che una consuetudine. E’ il momento per parlare di politica, per aggiornarci sulle rispettive novità, o solo per fare due chiacchiere.
Neanche la neve fa paura, anzi in questi casi i frequentatori aumentano, anche per il fatto che è una strada pedonale e il candido manto rimane per giorni, lontano com’è dalla portata degli spazzaneve. Tante volte nei gelidi giorni innevati, abbiamo incrociato diverse persone munite di macchina fotografica per fissare la magia di quegli istanti. Visto che l’incedere non è del tutto semplice, in quei giorni si formano veri e propri sentieri, che permettono di camminare in fila indiana nei punti più bassi attraverso le dune che il vento modella. Il primo visitatore impone il passo a tutti quelli che gli succederanno fino alla nevicata successiva.
Dopo la proiezione di un film all’aperto, mi ritrovai con Pio a passeggiare e parlare e facemmo le tre della mattina senza accorgercene. Non voglio affermare che sia un luogo senza tempo, ma fare avanti e indietro tipo le vasche in piscina, un po’ti estranea dall’orologio che compie i suoi giri.
Via Limiti ha una toponomastica tutta sua, fatta di nomi ormai affidati alla consuetudine e legati a punti ben precisi del percorso.
I due punti iniziali verso Via Limiti e verso Piazza Municipio sono definiti “i paletti”, a causa della presenza di cilindri metallici che impedivano il transito alle automobili. C’è “il muretto”. Più avanti c’è “la fontana”, ovvero la fontana in pietra con un mascherone in rilievo dalla cui bocca sporge la canna per l’acqua. Quell’acqua è servita a riempire infinite borracce delle biciclette, non tanto utilizzate per placare la sete, quanto per far notare che le biciclette avessero la borraccia. Sono stati riempiti migliaia di palloncini per i canonici gavettoni estivi. C’è la zona dello “scivolo”, che anche se fisicamente non c’è più, sono pronto a scommettere che il nome rimarrà immutato. Così come è accaduto per quello stesso punto chiamato dai più anziani “la nevera”, perché fino a una cinquantina di anni fa c’era una neviera, ovvero una costruzione in cui stivare e conservare la neve per vari usi lungo tutto l’anno. Infine il tratto che dallo scivolo porta ai paletti verso Piazza Municipio è “la salita”, solo perché c’è un dislivello sensibile, quando per il resto la strada è quasi pianeggiante.

L’estate del 2001 arrivò con la solita calma, con giornate calde alternate ad altre che ricordavano da vicino l’inverno appena trascorso. Avevamo un ulteriore servizio che fino ad allora avevo vissuto solo tramite i ricordi di altri obiettori di coscienza che lo avevano svolto nel corso dell’estate precedente. Nel pomeriggio si saliva in due con la Panda grigia a via San Giovanni, aiutavamo il professore Stanco a posizionarsi su una sedia a rotelle, uno di noi lo accompagnava lungo i Limiti.
Il tragitto era quasi sempre lo stesso. Sui “Vasoli” , ovvero via Roma, ci fermavamo al bar, io gli portavo fuori  una tazzina di caffé e non potevo non tornare con la mente a quando quel bar era gestito da mio padre e io preparavo il caffé che sorseggiava ancora al bancone. Il professore mi ha visto crescere ed era stato l’insegnante di filosofia di mia sorella.
Una domenica mattina di molti anni prima venne a prendere il solito caffé, mi chiamò in disparte e mi corresse su una parola che avevo pronunciato con l’accento sbagliato durante le letture della messa a cui ambedue avevamo partecipato fino a pochi minuti prima nella chiesa di San Pietro.
Le passeggiate erano sempre interessanti, ricche di dialoghi che spaziavano su diversi argomenti. Era un lusso approfittare della sua cultura e imparare tante cose dette con la semplicità delle parole che non devono ostentare, ma penetrare in chi ascolta. Tra gli argomenti preferiti c’era l’attualità e soprattutto l’attualità politica. Infatti le sue condizioni fisiche non gli avevano impedito di rimanere informato quotidianamente su ciò che avveniva in Italia e nel mondo. Spesso, quando andavamo da lui, lo trovavamo ad ascoltare programmi di approfondimento alla radio. E così dissertavamo di questo o di quel partito, della tale legge o di un particolare avvenimento. Le sue critiche erano sempre staccate da un personale convincimento, ma coerenti con il proprio pensiero. Oggetto preferito delle sue argute punzecchiature era un certo ministro che si vantava di essere un filosofo, essendo probabilmente solo uno studioso di filosofia.
Le passeggiate avevano anche una funzione sociale. Alcuni ragazzi, che avevano già svolto il servizio civile, gli rimanevano legati e spesso andavano a fargli visita, perché nelle sue parole c’erano consigli ed esperienza per le loro ancora giovani vite. In realtà penso che nel professore trovassero una persona capace di ascoltare senza pregiudizi, e non è poco. Nelle sue confidenze aveva sempre una parola di comprensione e di rammarico per i problemi, grossi o piccoli, che affliggevano tali ragazzi.
La cosa che colpiva di più di lui era, forse, la memoria e soprattutto quella particolare capacità detta memoria fotografica. A volte ci inviava nel suo studio a prendere dei libri e le indicazioni che ci dava erano una mappa precisa per raggiungere l’oggetto desiderato. Funzionava anche in posti in cui mancava da anni, come il suo amato “casotto” , dove in tanti avevano messo mano, ma aveva registrato tutti gli spostamenti. A volte lo accompagnavo con Patrick: lui rimaneva ovviamente in macchina e noi facevamo piccoli lavoretti di manutenzione, quali lubrificare serrature…, in quello che per anni era stato il suo rifugio nella natura, posto nelle Castagne poco sopra Sturno.
I dieci mesi del mio servizio civile finirono in Ottobre, ma il tempo consentiva ancora di poter uscire nel pomeriggio, per andare lungo via Limiti. Smisi il pantalone arancione e la polo bianca della divisa, altri ragazzi continuarono le visite al professore Stanco, a me rimase la nostalgia per quelle ore, il dispiacere di aver abbandonato un compagno di discussioni e dialoghi, e la strana sensazione che avesse mosso i suoi passi con le mie gambe.

Quando ero bambino pensavo che Frigento fosse il centro del mondo. Ne ero convinto. Quel panorama, che gira tutto intorno e si ferma solo per le montagne in lontananza, sosteneva l’inganno. E’risaputo che i bambini sono egocentrici, ovvero mettono sé stessi al centro di quella minuscola parte di realtà che riescono a percepire: dai genitori ai nonni, dai fratelli ai vicini di casa. Il mio caso era diverso, più grave. Mi ero esteso alla megalomania; Frigento ombellico del mondo, si direbbe oggi. La scuola pose fine ai miei deliri di onnipotenza.
Dal dominio sul mondo, visione generalista, passai pian piano ad una ricerca dei dettagli, visione particolarista. Iniziai col soffermarmi sui paesi che si scorgono fino all’orizzonte. Poi fu il momento delle linee naturali: colline, crinali, … il tutto complicato e meravigliosamente amplificato dalla constatazione che gli occhi non riescono a vedere sempre le stesse cose. Nelle belle giornate d’inverno puntavo lo sguardo verso il massiccio del Matese innevato e scommettevo con me stesso sul fatto che si potesse vedere anche la Maiella. A volte vincevo. D’estate, invece, sono i temporali a dare una mano. I nuvolosi carichi di elettricità, a volte squarciati da fasci di sole, consentono di ammirare un quadro rinascimentale, con il paesaggio che si alterna in zone di chiaroscuro, permettendo di distinguere zone che altrimenti sembrerebbero tutte appiattite.

Stranamente anche qui sta nevicando. In dieci anni sarà la seconda volta che vedo i marciapiedi bianchi. Sono affacciato alla finestra e vedo i fiocchi cadere. Col pensiero passeggio lungo via Limiti.

 

                                                                                           Francesco Di Sibio

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