Una volta, i ricordi arrivavano di notte, indossando l’abito del sogno.
E nel sogno volti, voci, odori … l’ieri diventava oggi. Tutto si trasformava, ed era emozione.
Ora i ricordi arrivano via mail. Spogliati di ogni romanticismo, stanno lì sullo schermo a dirti che gli anni, tanti, uno dopo l’altro, sono passati.
E tu non te ne eri accorto …
Allora esisteva la leva natatoria. Già, si chiamava proprio così. Ed io andai alla leva natatoria.
Erano gli anni … chi se lo ricorda, ma chi se ne importa! Erano anni belli.
Le mamme, allora, non tenevano la macchina e avevano pure altro a che pensare: così, la mattina, ti mettevi il costume e l’asciugamani nel sacco blu con le cordicelle e scendevi fino a Piazza Plebiscito per prendere il 129, guai a prendere il 152 che costava dieci lire in più! Si andava alla Mostra d’Oltremare. Laggiù, a Fuorigrotta, dove la città finiva. Un lungo viale tra prati ancora umidi di rugiada e alberi che trovavi solo lì ed ecco la grande Piscina Olimpionica. Noi, ragazzini ignoranti come tutti i ragazzini, non lo sapevamo, ma era tanto bella quella piscina da comparire su tutti i testi di architettura. Bah, deve essere per questo che l’hanno trasformata completamente. Ti spogliavi, il tempo di saggiare con un piede l’acqua, - ma io lo facevo giusto per farlo perché in venti anni mai che abbia trovato la temperatura giusta, sempre maledettamente fredda - e via! Avanti e indietro per quei lunghissimi cinquanta metri che non finivano mai, tra le urla e gli zoccoli lanciati con impressionante precisione, ogni volta che ci fermavamo a riprendere fiato con le mani aggrappate al bordo, da allenatori leggendari e indimenticabili. A noi toccavano le urla di Vittorio Costa e gli zoccoli di Szabo. A quegli altri là, a quelli della Canottieri, le urla di Bubi Dennerlein e gli zoccoli di Cesare Rubini.
Costa era un gran signore, Bubi così e così, Rubini e Szabo… no.
Proprio no. Quelli erano gente che faceva paura. E come facevi a non aver paura di Rubini? Lui che era stato un campione, ma campione vero, in due sport: nel basket e nella pallanuoto dove aveva vinto l’oro a Londra nel '48. Viso duro e dialetto altrettanto duro: era triestino lui, e i triestini non parlano, ordinano. E quando ti diceva che dovevi buttarti dalla piattaforma di dieci metri, c’era poco da fare: ti dovevi buttare. Ci siete mai saliti sulla piattaforma da dieci metri? Non ci salite: è alta, mamma mia quant’è alta! Dovevano essere interminabili secondi di terrore quelli che vivevano quelle povere creature mentre si lanciavano nel vuoto. Ma che ci vuoi fare, quella era la loro prova iniziatica e allora si dovevano buttare. A cofaniello, magari, ma si dovevano buttare.
Meno male che noi eravamo della Rari! Anche noi, però, avevamo la nostra brava prova da superare, non meno dura, ma di certo più simpatica: la guerra a mare, lo squagliascumma. Che cos’era lo squagliascumma? Palla in mezzo e via! Tutti contro tutti, senza regole e senza limiti. Un miracolo che nessuno ci sia mai finito affogato.
Anche il nostro Szabo aveva partecipato alle Olimpiadi in due sport diversi: nella pallanuoto e … nel pugilato, categoria mediomassimi. Lo capivi al solo vederlo: Aladar Szabo, detto Alì, era un ungherese dal fisico scultoreo e la faccia cattivissima di Jack Palance, l’attore cattivissimo.
Un idolo, quell’uomo scolpito nella pietra! Lui aveva vinto l’oro a Melbourne giocando la semifinale contro la Russia; quattro a zero finì quella che sarà ricordata nella storia, non solo sportiva, come “la partita del sangue nell’acqua”. Ci avrebbe fatto un film perfino Tarantino su quella battaglia, perché di battaglia vera si trattò, infatti. Non amava parlarne Alì, ma noi sapevamo quello che era successo quel giorno. Non ci voleva molto a capirlo d’altra parte: ricordavamo tutti le immagini in bianco e nero della “Settimana Incom” e la copertina della “Domenica del Corriere”.
Erano le Olimpiadi del “56”. Solo due settimane prima la rivolta di Budapest era stata schiacciata dai cingoli dei carri armati sovietici; erano morti in tanti. Come non pensarci. I giocatori ungheresi erano scesi in acqua, quella sera, portandosi dentro tutta la rabbia e il dolore per la sorte toccata alla loro bella patria. La partita rappresentava l’occasione della rivincita, e la rivincita, piccola, piccolissima se la presero.
Con la medaglia in tasca, poi, Szabo aveva fatto come tanti altri: non era tornato a casa, preferendo l’esilio. Nel calcio se ne erano giovati il Real Madrid e il Barcellona accaparrandosi i campioni della Honved: Puskas, Bozsic, Kocsis e Czibor. Nella Pallanuoto ce ne giovammo noi della Rari che agli ungheresi eravamo abituati: era ancora vivo, infatti, il ricordo del pirotecnico Bandi Zolyomi, il mister che sarebbe poi passato alla Nazionale, a renderla grande.
Era il nostro sogno diventare forti e famosi come quei campioni che guardavamo allenarsi mentre ci asciugavamo al sole sulle gradinate, e intanto ingrassavamo i palloni. Perché quei cosi gialli e carini, capaci di rimbalzare allegri e insolenti sull’acqua, sarebbero arrivati soltanto dopo. Quelli di allora erano grossi, rossi e viscidissimi, pesanti che quando ti arrivavano in faccia ti veniva da piangere per il dolore. E io lo so bene perché è in faccia che mi li tirava Giovanni Capobianco, l’allenatore che mi volle portiere. “Così impari a non girare la testa!” diceva.
Li guardavamo con invidia, con le mani sporche di grasso, ignari che quel grasso ci avrebbe sporcato ben altro il giorno agognato in cui saremmo andati per la prima volta in trasferta con loro. Bullismo verrebbe definito oggi, in questo tempo di ipocrisie perbeniste, ma l’offerta delle nostre carni innocenti rappresentava per noi, vittime sacrificali, la realizzazione di un sogno.
Una mattina, su quelle gradinate, a Geppino D’Altrui che si era assopito al sole, dal costume allentato fece capolino qualcosa che destò la curiosità ammirata di una bagnante sdraiata subito più in alto. D’Altrui non era niente male…
“Che schifo!” fu il disgustato commento, ma solo allorché si accorse che Geppino, ripresosi dal torpore, stava provvedendo in fretta a sistemarsi. Eh sì, a quei tempi le donne erano fatte così.
Quando si faceva l’ora di andar via… Mi correggo, quando ci mandavano via per far posto ai bagnanti, tutti, l’uno sull’altro, ci ammassavamo nella Goggomobil, l’improbabile auto di cui, in tutto il mondo, soltanto Alì possedeva un esemplare. Fu la Goggomobil che una mattina sul lungomare di via Caracciolo strinse e bloccò contro il marciapiedi la ‘600’ di quel tizio che gli aveva urlato “stronzo!”. Puveriello, non sapeva che cosa gli stava succedendo! Alì scese con tutta calma dalla sua auto, aprì lo sportello dell’incosciente e, sotto gli occhi di noi ragazzi che assistevamo a bocca e occhi spalancati, lo afferrò per il colletto della camicia e lo sollevò da terra …
“Come hai detto?” gli soffiò sulla faccia nel suo stentato italiano, “Come hai detto?” ripeté, e di fronte al silenzio terrorizzato dell’omino sgambettante …”Allora, tu stronzo, tu vigliacco!” Lo rimise a sedere, chiuse lo sportello e tornò tranquillamente da noi che avremmo ritrovato la parola soltanto una volta arrivati al circolo.
Il circolo…
L’ingresso era proprio dietro la bella fontana monumentale nella curva di fronte all’Hotel Excelsior. Fu una delle prime cose che appresi: quella era l’entrata normale, seria, quella per tutti. L’entrata di noi ragazzi, quella che ci avrebbe anche permesso di interpellare l’oracolo, era un’altra: si scendevano le scale che ti immergevano nelle esalazioni estasianti della Zì Teresa, si passava tra i tavoli e le malie della Bersagliera, si attraversava l’Italia, circolo del remo e della vela - cose da signori - e qui, al confine con il Savoia, sulla sua seggiolina, raggrinzito e immobile come una statua, con il maglione blu e il berretto da marinaio, c’era Umberto: il marinaio appunto. Sfilavamo davanti a lui salutandolo in coro…”Buongiorno don Umbe’!”
Sempre uguale la cortese risposta: “’O sanghe ‘e chi ve muorto!”
Ecco, con questo saluto augurale poteva cominciare la giornata: la Rari era tutta per noi.
La Rari Nantes … Un’indisponente, bassa e bianca terrazza poggiata sugli scogli del mare sempre profumatissimo di Santa Lucia. Un profumo che resisteva a tutto, anche alla nafta che, quasi quotidianamente, scaricavano le petroliere ancorate al largo.
Sala da gioco, bar, ristorante e spogliatoi. Buonissime le paste del bar: una mattina Szabo ne mangiò diciotto.
Venivamo dall’acqua e tornavamo all’acqua. Salata questa volta. Due passi sulla piattaforma, viscida che ogni tanto qualcuno ci prendeva un bello sciuliamazzo, e un tuffo. Due pali, una traversa e una rete: passaggi e tiri in porta. Per ore. Fino a che Michele, il vecchio bagnino, aizzato dai soci più anziani, non veniva a dirci: ”Guagliu’, mo’ ve n’avite ì” (Ragazzi, ora dovete andar via), traduco per i meno fortunati che non sono napoletani.
Per me si trattava soltanto di un trasferimento brevissimo: poco più di cento metri per raggiungere i miei che facevano il bagno al “Savoia”, lo stabilimento balneare sulle palafitte che stava proprio sotto la Litoranea. Fu nelle acque sporche del Bagno Savoia che, un paio d’anni dopo, feci la più bella delle scoperte: il corpo femminile. Si chiamava Monica, che poi era Mena, la ragazzina che mi disse “mi fa tanto male qui” e prese la mia mano per portarla a massaggiarle il seno. Dio, che meraviglia! Scoprii che non c’è nulla al mondo di più morbido e liscio. Ma le faceva male anche l’altro, e le faceva male anche più giù, e anche più giù dovetti massaggiarla…
Appresi allora che non c’è modo più bello per impegnare le mani. Non lo avrei dimenticato mai più.
Ma stavamo parlando d’altro.
Eravamo quelli della Rari Nantes, entravamo nella storia della Pallanuoto. Perché la Rari era la storia. Ed era leggenda: “siamo quelli del “Settebello”, avevano detto a Niccolò Carosio, il radiocronista, leggendario anche lui, i napoletani presenti a Londra nel “48. Pasquale Buonocore, Emilio Bulgarelli e Gildo Arena donarono così, per sempre, il nome alla nazionale azzurra.
Noi ne eravamo gli eredi.
Di quel nome sentivamo il peso?
Che vuoi sentire quando tieni solo dieci anni! E i dieci anni di allora erano tanti di meno dei dieci anni di oggi …
(continua)