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I treni


da Una palla nell'acqua


di Dino Simonelli


Vi proponiamo, tratto da Una palla nell'acqua, il racconto che Dino Simonelli, giocatore di pallanuoto della Rari Nantes anni sessanta, fa dei suoi lunghi viaggi in treno, giu e su per l'Italia, con la sua squadra.



Per voi umani i diciott’anni significavano la maggior età, per noi che vivevamo nell’acqua erano il passaggio dalla juniores alla prima squadra. Significava un costume vero, di nylon, li avevamo invidiati per anni quei costumi venuti dall’America, non quel coso di pesante cotone marrone da cinquecento lire che dopo un poco ti scendeva tra le cosce e sembravi un vecchio guallaroso. In qualche caso significava perfino anche borsa e accappatoio nuovi: ti davano il “buono” e tu andavi a ritirarli, col sorriso sulle labbra e il petto in fuori, da “Reggio Sport” giù a Santa Brigida. E la tuta? Eeh, la tuta!
Significava andare in trasferta: aerei e grandi alberghi…
Non dico Cavani e Lavezzi, ma ve l’immaginate Grava o Aronica in uno di quei treni? Quando ti andava bene, quando si ricordavano di prenotare i posti e non eri costretto a viaggiare in un corridoio affollato seduto sulla borsa, sedevi su seggiolini ricoperti di quel velluto marronastro che esisteva solo nei treni e che sembrava provenire dall’Africa più nera tanto era caldo e appiccicoso. Ancora più caldo perché tenevi addosso i jeans che chissà chi ha detto che sono pantaloni estivi. Di notte, poi, ci si azzuffava per conquistarsi la cuccetta di sopra dove, tenendo il finestrino un poco abbassato, potevi anche credere che l’aria fosse meno irrespirabile. Ma perché, chiederete voi, l’aria condizionata non c’era? Allora voi non avete capito niente, vi rispondo io.
Si viaggiava allora con porte e finestrini aperti alla ricerca di quel po’ di vento che poi finiva anche col farti sbattere in faccia la tendina, sporca, calda e pesante anche quella, naturalmente. Treni che avevano anche un loro nome: per salire al Nord prendevi il “Freccia del Sud”. Bugiardo e presuntuoso, impiegava dieci ore per arrivare a Torino, dodici per Genova. Per scendere in Sicilia c’era invece il “Peloritano”, un rapido che mostrava tutta la sua rapidità al momento di passare lo Stretto: tuunf, e si sganciava un vagone; clang, clang e il vagone saliva sul Ferry; tuunf, e si sganciava il secondo vagone; clang, claang e il secondo vagone si imbarcava. E il terzo, e il quarto … Diciotto, o più, interminabili tuunf e claang, prima di poter prendere finalmente il mare. E poi di nuovo, all’attracco, per sbarcarli e riagganciarli, vagone, per vagone. Però che viaggio quello tra Messina e Catania nella notte! Il canto dei grilli e il profumo degli aranci in fiore facevano a gara per entrare dai finestrini spalancati contendendo al cielo stellato il potere di stordirci.
Il record della durata lo deteneva il treno che ci portava a Trieste, lassù, ai confini del mondo. Ma Trieste ci ricompensava con una sosta di un’ora a Venezia, - e in quell’ora almeno uno sguardo a quell’incanto riuscivi pure a darcelo - e la bellezza delle sue donne, le splendide mule, tutte brune e con gli occhi chiari, l’ottimo caffè dei suoi bar e con i Bagni Ausonia dove il mare, dimenticando di essere Adriatico, chissà come, prendeva quasi il sapore del nostro.
Facevi spesso degli incontri interessanti, come quello con il vecchietto che viaggiava portandosi appresso la sua piccola dama magnetica …
“Le piace giocare? La farebbe una partita con me?” e, alla mia risposta affermativa, “Le dispiace se le do due pedine di vantaggio?” “Non mi sembra il caso” faccio io, e penso: questo è scemo. Giochiamo e, zac zac zac, la partita è già finita. “Beh, a pensarci, forse è meglio che me le dia quelle due pedine di vantaggio.”
E l’anziano signore tedesco?
“Conosce il tedesco?” fa lui. “No, però conosco l’inglese” faccio io. “Mi spiace, io non parlo l’inglese” fa lui, “Peccato” faccio io”. “Però potremmo discorrere in francese” fa lui, “No, purtroppo non conosco il francese” faccio io, sinceramente (?) dispiaciuto. Silenzio. “Ecco!” esclama improvvisamente lui, ed è contento quasi fosse Archimede quando disse Eureka perché aveva scoperto non mi ricordo che: “Possiamo parlare in latino.”
Otto anni di latino tra medie, ginnasio e liceo …
Come andò? Che ve lo dico a fare.
La ragazza aveva i capelli color del rame, grandi occhi verdi e il viso punteggiato di graziosissime lentiggini disegnate apposta per attirare i baci. Ignari degli sfottò dei compagni invidiosi, parlammo di mille cose. Soli, lei ed io. Le ore passarono quasi senza che ce ne accorgessimo. “Devo lasciarti, io scendo qui, purtroppo” disse, e negli occhi brillava una lacrima, mentre entravamo a Roma Termini. “Verrò presto a trovarti, te lo prometto.”
“Sì, presto. E poi io verrò da te” risposi io, stringendole la mano e lasciandomi incantare da quel verde che diventava sempre più bagnato. Ci scambiammo in fretta i nostri recapiti, mentre il treno già sbuffava. La sorpresa mi attendeva appena giunto a casa, amara, dolorosa. Sulla mia “Settimana Enigmistica” era scritto: Dino Simonelli, vico Cariati 48, tel. 081…Avevamo scambiato numeri e indirizzi, ma non le riviste, uguali, su cui quei numeri avevamo appuntati.
“La festa appena cominciata è già finita …” cantava Sergio Endrigo. Ma almeno la sua era cominciata, la nostra no.

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