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 PICCOLO MONDO POSILLIPINO


Bellezza è verità, verità è bellezza - Questo voi sapete sulla Terra ed è quanto vi basta sapere


di Aurelio Capriati.

Annus horribilis il 1966. Fu l’anno della Corea del Nord, assurta agli onori calcistici per aver sconfitto ed eliminato l’Italia dai Mondiali con un gol del dentista Pak do Ik. Ma, per me, l’estate del  1966 fu orrenda soprattutto per una ragione scolastica: la mia bocciatura agli esami di maturità classica. Al fosco quadro ora tratteggiato si aggiunse che, avendo raggiunto i 18 anni a giugno, non avrei più usufruito della tessera di socio sportivo che mi consentiva i bagni a sbafo al Circolo Posillipo, a meno di superare un arduo esame teorico-pratico di vela.
L’anno prima avevo festeggiato la mia iscrizione (gratuita) al circolo con una pizza da Umberto, ora sentivo il mio attaccamento svanire come una nuvola al vento. Non per la questione dei soldi, pur importante, ma, forse, perché avvertivo quell’associazione come un retaggio del passato, un qualcosa di anacronistico di fronte al nuovo che avanzava sulle onde musicali di un paio di complessini inglesi e sugli echi della ribellione degli studenti americani nella lontana Berkeley, precursori di quella che sarà la leggendaria contestazione del ’68.
Nella precedente estate mi ero limitato a guardare bramosamente dalla ringhiera del Sea Garden il molo del circolo Posillipo, costellato di scafi milionari ed eleganti barche a vela. Quell’anno imparai finalmente a nuotare grazie allo stratagemma di Enrico, un amico, che abitava nel mio stesso parco, nonché compagno di gite e di qualche primo timido tentativo di “rimorchiare” sotto gli istituti scolastici femminili: il Maria Ausiliatrice o il Sacro Cuore. Cosa accadde a luglio dell’infuocata stagione? Poco abituato ai bagni di mare e un po’ anche per paura dell’acqua alta, portavo ancora in vita un giubbotto salvagente  che mi aiutava a percorrere il tratto che divideva lo stabilimento del circolo. Infatti, salita la scaletta posta al termine dell’imbarcadero, ci confondevamo con gli altri bagnanti e ci stendevamo sulla banchina ad arrostirci al sole. Enrico mi ripeteva, un po’ ironizzando, che, se le ragazze mi avessero visto galleggiare con quella cintura di salvataggio, mi avrebbero preso in giro con scarse possibilità di conquiste. “Devi farti coraggio e nuotare senza salvagente”. Io annuivo ma non mi decidevo a seguire il suo saggio consiglio. Capitò a fine luglio che fissammo appuntamento a un paio di “fanciulle” del Circolo. C’immergemmo dal punto più vicino e nuotammo a larghe bracciate verso la scaletta posta a un centinaio di metri. “Elio, che fai con quel 'coso’ afflosciato?”, mi urlò il mio amico. Mi guardai in vita e mi accorsi che nuotavo alla grande con il salvagente sgonfio. Guardai Enrico e scoppiai in una gran risata:“Grazie, se non sono annegato oggi non avverrà mai più!” . Ed Enrico “Ora possiamo salire al circolo…sarebbe stata una vera figuraccia presentarti come un “cannibale” che non ha mai visto il mare…”.
      L’anno dopo cominciò il mio primo corso di vela (e di mare gratis…). Uscivo con l'istruttore, anche in tre se eravamo troppi come allievi. La barca era un Flying Junior, dalla struttura portante in vetroresina arancione e dotato di fiocco e randa. Molto leggero come scafo e maneggevole. Finanche io riuscivo a volteggiare sotto il boma, evitando di prenderlo in fronte ad ogni virata. Nelle due ore circa di regata in mare, si andava dalla rada del circolo fino a Trentaremi e ritorno. Quando il caldo era insopportabile e la brezza o gli spruzzi non bastavano per rinfrescarci, facevamo una manovra di braccia e gambe così da capottare la barca e trovarci in acqua, per poi rimetterla in sesto dopo un refrigerante bagno.
     Quanti urrà, grida, risate scambiavamo con gli altri equipaggi in una simbolica gara a chi faceva più casino. Talvolta ci spingevamo più al largo, laddove il mare si colorava di profondo blu,  puntando la prua verso Capri e scivolando in silenzio tra le onde biancheggianti di schiuma.  Una volta scesi, subito correvamo in piscina per una rapida nuotata nell’acqua dolce dell’invaso. La pelle perdeva il bruciore del sale, pronta per essere esposta, di nuovo, all’assalto del sole.
Le ragazze, sì c’erano anche le ragazze, cresciutelle, sedicenni o poco più, alcune graziose altre meno, ma  le si corteggiava tutte, magari con metodi rudi come buttarsi in piscina avvinghiati tra i gridolini impauriti delle malcapitate. Ma, se ti lanciava lo sguardo languido, era fatta! Il giorno dopo cominciava un nuovo flirt. Declamò John Keats: “"Bellezza è verità, verità è bellezza - Questo voi sapete sulla Terra ed è quanto vi basta sapere"
Ecco, noi giovani del circolo eravamo la personificazione di questi bei versi.  Eravamo spensierati e amanti della bellezza, sia del cuore che del corpo, come lo deve essere un diciassettenne o un diciottenne, anche se assalito da pene d’amor non corrisposto. Forse non mi sono goduto appieno quel periodo così bello della vita, dove un sorriso di una dolce ragazza ti faceva sognare, la notte, dolci baci e abbracci con la giovane seduttrice. Forse ero un po’ timido e avrei dovuto abbattere il muro di un impaccio adolescenziale, così da godere appieno l’attimo fuggente concesso dalla graziosa incantatrice. Tuttavia, niente rimpianti, così fu e ogni ricordo di quelle estati posillipine richiama i baci rapidi e furtivi dal dolce sapore del mosto d’uva di primo fiore, il mosto giovane che fermenta nel tempo di un mese lunare.
     E chi se ne fregava se all’allenatore di canottaggio piacevano i ragazzini; insomma era gay, come oggi si dice, e come si sussurrava fra noi, giovani soci sportivi, tra lazzi e sghignazzi con parola napoletana ben più espressiva.... Era pericoloso, nel pomeriggio, entrare isolati  per cambiarsi. Sapevamo che era appostato nei bagni per sorprendere qualcuno da dietro…Era un pezzo d’uomo, e questo mi rendeva sconcertato sulla sua vera indole. Comunque era la sua parola contro la nostra, che all’epoca, era perdente. Capitò a un mio caro amico di cadere nella trappola, ma urlò tanto che scesero il portiere e il vicepresidente negli spogliatoi: scattò il licenziamento in tronco per il dissennato predatore.

      Sul lato occidentale del circolo si stagliava la mole compatta di Palazzo donn’Anna: luogo magico e “fantastico”, come scrisse D’Annunzio. Pur sapendolo solo vagamente – quando sedevo sul molo di fronte al mare ad aspirare le mie prime sigarette – scrutavo, tra la nebbiolina grigia del fumo, le pareti tufacee e le grotte sottostanti del possente edificio con inquietudine mista a curiosità. Vedevo il mare che penetrava nel buio delle caverne e ne ascoltavo il mugghiante lamento, come se anime in pena emettessero il loro eterno dolore. La fama maledetta è, forse, derivata anche da questo. Ed era magnifico lo scenario quando si scatenava una burrasca fra tuoni e lampi a mare con le onde che si frangevano schiumanti sui muri del palazzo inondando i terrazzi più in basso affacciati sulla baia. Negli anni successivi mi capitò di leggere l'emozionante testimonianza del posillipino doc Raffaele La Capria nel suo indimenticabile “Ferito a morte”, e mi tornarono alla memoria i ricordi su palazzo donn’Anna al tempo dei miei giovanili bagni…
  Il secondo e ultimo anno della scuola di vela, trascorse più in terra che a mare. Preferivamo stare a crogiolarci sul tavolato della piattaforma galleggiante, o sui bordi della piscina oppure sulle gradinate. Divenni così nero che un socio anziano mi scambiò per un africano o simile, tanto da chiedere al portiere (mi fu riferito) come mai entrassero ragazzi di colore nel circolo. Non so cosa rispose il portiere, ma penso che avrà riso sotto i baffi, che davvero portava.
Tra le giovani frequentatrici del Circolo, ce n'era una dall'indiscusso fascino: Patricia, che si tuffava come una dea. Era assai bellina, con morbidi capelli castani, chiari e lunghi, e, per giunta, italo-americana. Ognuno di noi la mangiava con gli occhi. Alberto, Luciano, Vezio io e altri, facevamo la fila alle festicciole danzanti, i famosi balletti. La spuntò Alberto, non alto ma con un bel sorriso e si lanciava in acqua con invidiabile maestria,  con salti e capriole. Io mi tuffavo come una ranocchia, il che non mi faceva guadagnare sguardi di ammirazione né mi agevolava nelle “acchiappanze”…
Guardavamo anche le belle signore. C’era un’avvocatessa che ci faceva impazzire per come ancheggiava: bionda, sotto i quaranta, con un bikini mozzafiato. Ma, era sempre accompagnata dall’amante di turno, sempre provvisto di motoscafo dai sette metri a salire.
     Il momento più piacevole era verso sera quando ascoltavamo i 45 giri col mangiadischi: Ragazzo triste di Patty Pravo, Che colpa abbiamo noi dei  Rokes, Tema dei Giganti , Io ho in mente te dell’ Equipe 84, Notte di Ferragosto di Gianni Morandi, Perdono di Caterina Caselli, Ticket to ride dei Beatles, Il ragazzo della Via Gluck di Adriano Celentano, Lady Jane dei Rolling Stones ecc. E si ballava tra gli ultimi raggi danzanti del sole al tramonto.
     La sirenetta del circolo ci salutò l’ultimo giorno d’estate perché tornava in America lasciandoci con la speranza del ritorno estivo. Non la rividi più. Forse molti anni dopo mi parve vederla passeggiare per Via dei Mille, ma non ebbi il coraggio di fermarla. Mi avrebbe guardato stupita, con ogni probabilità, vedendo in me solo uno sconosciuto.
Qualche giorno dopo si tenne l’esame biennale per essere promossi al terzo anno del corso di vela. Il presidente della Commissione era il mitico Agostino Straulino. Non avevo studiato nulla del manuale se non le variopinte bandierine della nautica (ero un appassionato di vessilli) e, tra i vari nodi marini, unicamente il nodo savoia. Già ero rassegnato a una scontata bocciatura con fine del mare a sbafo. Quella mattina faceva un caldo boia e nella saletta degli esami si respirava appena. Forse il “mago del mare” aveva fretta, forse gli ero simpatico, forse qualcuno dal cielo mi pensò: dopo avermi squadrato con i suoi penetranti occhi chiari, mi chiese “Giovanotto, lei ha la faccia di quello che ha studiato: mi illustri le bandierine di segnalazione marittima e dopo faccia un bel nodo savoia.” Quasi volevo piangere dalla gioia.
Rimase impressionato da come enumerai e spiegai le varie bandiere e per la rapidità con cui annodai la cordicella di canapa marina. Promosso a pieni voti: fu il  lieto epilogo di una cattiva annata, anche se il mio corso di vela terminò in quella stanza. Al Circolo Posillipo l’anno seguente non sarei più tornato. Avevo da sostenere per la seconda volta la maturità e una nuova linea d’ombra si stagliava sul mio orizzonte.  

 

 

 

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