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Otto marzo



Lo sguardo segue i pensieri di questa notte di carnevale e vigilia della festa della donna passata in ospedale, con una flebo in vena e la luce notturna fastidiosamente accesa.
Il ginocchio non mi duole; per fortuna gli effetti dell’anestesia epidurale sono del tutto andati via e posso muovere le gambe.
“Se solo potessi urinare!”
Dall’auricolare il conduttore di un programma della notte si compiace del suo maschilismo e la sua partner parla dell’importanza della festa della donna ma scodinzola esaltando la coda del pavone innalzata dal suo collega.
La trasmissione è banale; non capisco qual è la posizione politica dei due sull’argomento che stanno commentando.
Quando un intervistato sciorina al telefonino le sue virtù di marito-uomo-compagno perfetto, paritario nei rapporti con la sua compagna fino al sacrificio sublimare, mi rendo conto che condivideranno qualunque tesi sarà esposta: da femminista arrabbiata o da gattina sottomessa che sia.
Da questi drammi sono allontanato dal solito lamento commentato del mio vicino di corsia.
Comincio a maledire il giorno, l’ora e quello stronzo di medico che mi ha cacciato in questa situazione facendomi credere di potermi operare in day-hospital.
“Infermiera, guardi che la flebo sta per finire.”
“Ok, gliela cambio e la regolo con un deflusso lento, così potrà riposare almeno tre ore.”
Non ci credo: per tutta la notte non è mai venuta di sua iniziativa. Ho dovuto combattere il sonno nel timore che mi entrasse aria in vena.
Mi viene un po’ di sopore.
Un altro lamento commentato del vicino mi aiuta a restar sveglio.
Mando a lui ed al medico un’altra benedizione.
Anche la scorsa notte, passata inutilmente in ospedale in attesa dell’operazione del pomeriggio successivo, sono stato allietato da Francesco.
“Chi sa come lo chiamano i suoi: Ciccio, Franco.”
È uno strano individuo, sessantasette anni, magro, minuto, abbastanza curato, ordinato, quasi meticoloso; un gran rompi-coglione, però.
Capisco i suoi problemi posteriori in attesa del “parto” (al momento solo rumoroso), ma potrebbe lamentarsi senza fare ogni volta una telecronaca.
Ogni piccola o grande sofferenza è invece descritta con dovizia di particolari, arricchiti da racconti di fatti, accaduti o che avrebbe voluto che si fossero verificati, di solito, per nulla attinenti al suo stato attuale.
È come se la sua mente parlasse!
Non è devoto, ma ha per intercalare un’invocazione alla Madonna, anzi:
“Madunnella, Madunnella mia!”
E’ strano; per altri versi riservato e disponibile al tempo stesso.
L’altro degente, anch’egli come me impossibilitato a muoversi, lo sfrutta indecorosamente; perché vergognoso delle infermiere notturne, gli chiede di svuotargli l’orinatoio e lui, Francesco, come decido di chiamarlo, esegue premurosamente, anzi, cogliendo l’ansia dell’altro, evidenzia che i recipienti non sono stati confusi.
È l’alba quando Francesco decide il grande passo assumendo tre, quattro cucchiai, credo, di lassativo.
Fugge, con quel suo incedere sbilenco per la ferita, nel bagno.
Commenta il tutto, a voce piena, con particolari coloriti.
Poi la disperazione, i pianti, le urla.
“ ‘O sango, ‘o sango! Aiuto, aiuto!”
Bussiamo freneticamente il campanello. Senza risposta.
“ Infermieri! Infermieri!”
Il muro del bagno, la porta, sembrano venir giù per i pugni di Francesco.
Temiamo il peggio; intervengono.
Al suo ritorno ricomincia con il lamento commentato che si fa più aperto; è un timido dialogo a distanza.
Affiora piano una dignità, una forza, l’orgoglio di chi può vantare amicizie importanti che gli hanno consentito l’avvicinamento del figlio poliziotto; emerge un’umanità che avevo rifiutato di sentire, di vedere.
È strano che quest’uomo si accontenti di una silenziosa attenzione per raccontare se stesso; un bisogno sopito dal dramma che intorno a lui si svolge, di cui è protagonista, ma anche vittima.
Ha costruito con la sua compagna un mondo che gli era stato negato.
Poi, la di lei malattia lo priva di tutto.
I suoi mutati comportamenti non vengono compresi per  quelli che sono: non la vecchiaia, le malattie ma la somatizzazione del dramma familiare.
Scelta-rifugio od ignoranza, nessuno vuole un altro problema, nessuno vuole ascoltarlo.
“’A capa nun l’aiuta!”– dice l’infermiera.

In un’ora Francesco racconta la sua vita. Lo fa ricordando episodi in un susseguirsi disordinato ma sempre nitido e coinciso.
Non si vanta dei successi, si compiace, invece, di quanto di buono è riuscito ad avere dalla vita,  costruendo sulla tristezza di un’infanzia orfana della madre già a cinque anni.
Era il 1937 quando accadde.
Ultimo di undici fratelli di cui sette viventi, i quattro morti nati prima di lui, ed una gran distanza dai maggiori che già prendevano la loro strada.
Alcuni di essi muoiono prematuramente.
Ormai è solo con un padre padrone che, sbandato dalla solitudine e circuito da donne interessate, dilapida il patrimonio familiare.
È  preso a bottega dal fratello macellaio.
La guerra  che s’impadronisce della sua vita.
Narra di quel tempo: gli sfollati da Napoli, da Torre del Greco, da Portici accolti nella cantina di casa mentre i bombardamenti avanzano.
Descrive le incursioni con suoni grevi che fanno immaginare gli aerei non solo pesanti del carico delle bombe, ma soprattutto del dolore, della distruzione, della paura.
Ricorda la riconoscenza degli sfollati salvati dalle rappresaglie dei Tedeschi.
“ ‘O vino buono ‘e pateme – cumm’era buono! – ll’ha sarvate!”
I soldati entrano in casa; il padre offre loro del vino. Sono diffidenti.
“Annétte buono ‘o vuccàle.”
“E io ‘o pulezzaie, ‘nnanze a loro, pulito, pulito.”
“Vevìte, vevìte: è buono!”
Mima con smorfie del viso le variazioni d’atteggiamento dei soldati, prima sospettoso, poi attento ed infine disponibile, compiaciuto.
“Gut! gut!”
“Vevìte, vevìte! – dicette patemo-  e rignètte n’ato vuccàle”.
Il portone si chiude dietro di loro.
“Pure ‘sta vota ‘nce l’hammo fatto!”
Ed ancora i ricordi delle fughe, attraverso le campagne, trasportato sulle spalle dai grandi.
“Ero piccereniéllo…”
”Meglio ca te ne fùje pure tu!”
Solo un accenno alla liberazione da parte degli Americani preceduta da lutti di persone care.
Non pensavano che avrebbero bombardato; non c’erano obiettivi militari lì …piuttosto a Napoli.
Invece… quella casa centrata in pieno.
Per oltre quarant’anni aveva fatto il macellaio, fino all’87, quando, per la malattia della moglie, dopo cinque anni di tribolazioni, sperando in una guarigione, decide di cedere l’attività.
Lei lo aiutava fattivamente nella loro “chianca”.
“Felliava ‘a vaccina a mmane… mica c’erano le affettatrici; fèlle ‘e carne nette, grosse p’ ’e signure, piézze ‘e carne p’ ‘a tiana p’ ‘e faticature.
Tutti venivano alla loro bottega!
“’A Napule venevane p’accattà ‘a carne mia, ‘o zuffritte, ‘e sacicce, ‘a carnacotta.” 
E lei stava al pubblico, riservata, ma efficiente e ferma.
Era stata lì fino alla scoperta di quel nodulo al seno.
“ ‘Na nòce”.
Quanti medici consultati.
“Ognuno diceva ‘na cosa”.
Frastornato, perde la sicurezza e la serenità consolidate in tanti anni di certezze.
Si affida ad un medico che opera a Sorrento; viene asportato il seno.
L’esame istologico non lascia dubbi: maligno.
Ma il chirurgo lo rassicura, si autocelebra.
“ Te l’aggio salvata!“
Cinque anni dopo: la disperazione. Siamo nell’87, vende la Macelleria, la sua “chianca”, per stare vicino alla moglie che deve subire un altro intervento.
A Brescia l’operazione dura dalle 8 alle 15.
“ ‘A squartaie d’ ’a zizza fino e dint’ ’a fessa; ‘nce levaie tutte cose, pure l’ovaie. Uno sulo, e che facette! Tale e quale a sti magna franche, ‘e prufessure ‘e cca’.”
Scimmiotta la prosopopea del primario, il servilismo dell’assistente preferito, l’agnosticismo del raccomandato, la cattiveria dello sfruttato che ogni mattina s’affacciano sull’uscio della corsia.
“ Aggio acciso meliune d’animale, ‘e tutt’ ‘e mmanere!“
Ciò che aveva subìto la moglie aveva superato ogni sua immaginazione.
Ricorda quel chirurgo di Brescia con una espressività indefinita che va oltre qualunque sentimento di riconoscenza egli possa esprimere: un gesto per far immaginare qualcosa al di fuori della condizione umana. 
“ Io ‘o salvo!”
Non vuol dire salvezza divina; gli occhi illuminati ed un gesto della mano cercano di rappresentare uno stato d’animo.
Improvvisamente ricomincia a lamentarsi della sua condizione attuale, dei medici. Mostra una cicatrice sullo stomaco lunga trenta centimetri.
“‘Nce ‘o dicevo a ‘o  chirurgo militare: ’a cistifellea sta cca’ bbascio. E isso, tuosto!”
“ Io intervengo dall’alto, da sopra lo stomaco. “
“ ‘Ncopp’ ‘o stommaco, doppo tant’anne, m’avettere ‘a leva’ ‘nu piezzo ‘e carne ‘ntustata.”
Cosa non gli è successo questa mattina.
“ Ah, che dolore!.”
“ Quatto cucchiaie; e manco a niente sò servute. Certe nozzele accussì; e che dulure, che sango.”
Coinvolto, trasferisco la mia esperienza.
“ Non serve il lassativo. “
“ Dopo cinque giorni, occorre intervenire con un clistere.”
E giù a dar consigli sull’alimentazione antistitichezza.
L’interessamento lo rende felice e comincia a riproporsi di ritornare alle sue vecchie abitudini di cenare col biscotto di grano, una pera ed il formaggio.
Niente carne, per carità!
“ Tutt’abbuffata! Che ve magnate?”
Serve per raccontare, ancora, della moglie lontana da lui.
“ Sta facenno ‘e ccurrente a Avellino. “
Alle ossa stavolta. La cobalto, per poi passare alla chemio.
Ritorna a ricordare la sua giovinezza, la sua condizione di scapolo, il paese gretto, la mancanza d’intesa con le ragazze del luogo e poi di quel sensale che gli aveva proposto quella giovane, riservata, mai uscita di casa.
“ Nun era maie asciuta.”
Significa qualcosa di più per lui, una purezza anche di dentro.
Rappresenta questo con un gesto: una mano che sfiora l’altra che si ritrae.
La ragazza si sottrae alla sua carezza.
Neppure lui era mai uscito.
“Chi teneve ‘o tempo! Faticavo ‘int’ ’a chianca ‘e fratemo.”
Accenna ad un disinteresse per le donne del paese; non sono quello che cerca: sono pettegole, interessate. Emerge il ricordo del padre irretito.
Quel sensale lo aveva poi rivisto vecchio.
“Io ‘o benedico.”
Lo aveva accolto con tutta la riconoscenza che poteva esprimere.
Grazie a lui la sua vita era cambiata; il bilancio di quegli anni era nettamente positivo.
Una fortuna averlo incontrato quando aveva per le mani quella ragazza da marito adatta a lui e per giunta benestante.
Senza conoscerla aveva già intuito che la scelta sarebbe stata giusta ed ostinatamente aveva resistito alla derisione dei parenti sull’origine campagnola della promessa.
“Pìgliate ‘na femmena d’ ‘o paese!”
“Che haie ‘a fa’ cu sta campagnola!”
L’incontro viene fissato.
Lui, il sensale, lo avrebbe atteso a casa di lei.
Deve prendere una corriera per andare in un paese limitrofo per poi raggiungere a piedi la masseria della famiglia della ragazza.
C’erano poche auto ed ancora si usavano carretti con alte sponde laterali di legno trainati da cavalli.
“’E tenevano ‘e signure ‘e machine; e quanto custavano.”
Tirandosi il pigiama mima una condizione di ordine del vestito indossato per l’occasione; con un altro gesto, il percorso tormentato della corriera, mima i viaggiatori che lo guardano incuriositi.
Quando scende nella piazza del paese si sente osservato, ha la sensazione che già sappiano.
Percorre la strada principale per uscirne.
Nota alle finestre ragazze far capolino curiose, subito richiamate ad un contegno più decoroso dalle donne di casa; qualcuna di esse, però, ne approfitta per sbirciare il nuovo arrivato.
Ne parla in termini positivi; quel mondo chiuso degli anziani non gli appartiene. È dalla parte di chi vuole un nuovo rapporto generazionale, invoca emancipazione.
Lungo il percorso è assalito dai dubbi del nuovo, della scelta che sta per fare, teme il giudizio della famiglia di lei, che possa essere tutta un’illusione.
Ripensa al sarcasmo dei parenti.
Si rassicura.
“Io po’, dint’ ‘a casa, sacc’io cumme me l’aggio aggarba’!”
È  troppo grande il desiderio di conoscere questa giovane, che rappresenta già il suo domani e quello che non ha avuto nella sua infanzia, nell’adolescenza: un affetto immaginato e mai conosciuto.
Il sensale gli viene incontro, rassicurante come un padre; lo sostiene nell’affrontare da solo, come sempre, la famiglia schierata ad accoglierlo.
Scorge in fondo la giovane che non descrive, cosi come non ha mai raccontato episodi felici della sua vita.
I suoi occhi, però, riflettono la gioia provata vedendola quarantadue anni fa.
Una sensazione piena, totalizzante che dura nonostante tutto, ma che lo tormenta nell’anima e nel corpo che specchia nei suoi malanni il timore di veder spegnere una vita e che con essa il suo mondo, la sua vita stessa.

 

 

Carlo Visconti

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