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Livio



di Francesco Arrichiello

Fa di corsa l’ultima rampa di scale del palazzo, separato dal mio solo dalla grande strada, dal traffico cittadino convulso e caotico. L’ultima rampa di un palazzo di cinque piani, che, nei palazzi antichi come i nostri, equivalgono almeno a sette o otto di quelli moderni. Ed arriva col fiatone. Ma non esagerato, non come un novantenne che cerca di raggiungere la badante. Avrà si e no otto anni ed ha un fisico asciutto e sano, chiuso tra un paio di pantaloncini blu all’inglese e ed una camiciola bianca col cravattino finto, col nodo già fatto e l’elastico che la ferma al collo. Nessuna prova è troppo dura per un fisico così. E gli ultimi gradini li fa a due a due, senza sforzo. Spingendo i piedi nei mocassini, con calze al ginocchio di filo di scozia blu. La scala si è fatta sempre più stretta e più ripida ed il soffitto sempre più basso.
Si ferma davanti alla porticina che accede ai sottotetti e controlla. Il suo sguardo gira lungo il perimetro della porta ed infine sorride. Il pezzetto di cartone che ha infilato tra l’anta e lo stipite è ancora lì. C’è. Nessuno è entrato.
Infila la chiave nella toppa, raccoglie il cartoncino che sporge e fa fare un giro alla chiave. Un mezzo giro, neanche un giro completo, quello che basta per sentire lo scivolo che arretra e libera il passaggio.
La porta si spalanca silenziosa sul suo regno, un sottotetto, con tutte le caratteristiche che noi che conosciamo i palazzi antichi sappiamo immaginare. Enormi travi di legno scoperte a sostenere i tetti spioventi, alti al centro dello spazio e bassi fino a poco più di un metro alle parti esterne, con lucernai socchiusi e finestre bassissime e senza protezioni.
Solo che qui non c’è la polvere che ci saremmo aspettati di trovare. Anzi, tutto è lindo e pinto, con un lettino in fondo allo stanzone, una grossa poltrona in pelle, un tavolo sotto la trave più alta, una lampada sospesa, costituita da un grosso piatto in metallo di un apparente rame rugginoso, ed in fondo, semi nascosti, una cucina economica e un acquaio in marmo sostenuto da quattro piedi realizzati con i tondini di ferro.
Livio chiude la porta alle sue spalle e va a prendere una mela da un enorme sacco di iuta. La strofina sui calzoncini fino a farla diventare di un lucido quasi irreale. La rimira specchiandosi nella sua buccia e l’addenta, lasciando che il succo sgorghi fino a bagnargli il mento. Solo allora si scuote e, mentre tira su l’aria tra i denti, si netta il mento con la manica della camicia e getta il torsolo che gli è rimasto tra le dita con un gesto perfetto a centrare una pattumiera, un grosso secchio di alluminio posto accanto all’acquaio.
Poi, a passi lenti si dirige verso il tavolo per controllare il contenuto di un vasetto di vetro. Lo guarda, lo annusa, ci infila un dito dentro per trarne fuori un pochino di pasta che appallottola tra indice e pollice. E’ l’impasto di mollica di pane e formaggio che userà per la pesca ai cefali che programma già da un po’. La consistenza è buona e la sua faccia soddisfatta lo dimostra. Pulisce le dita sui bordi del vasetto e va a recuperare l’attrezzatura da pesca: un cestino, con dentro una lenza, uno slamatore, un po’ di piombi e un po’ di ami di ricambio.
Mette il vasetto con l’esca nel cestino e scende.
Fa le scale due scalini alla volta, seguendo un ritmo, una musica che sente solo lui, ma che gli fa affrontare la discesa di corsa, quasi danzando. Man mano che scende le scale gli scalini diventano sempre più ampi, la pedata sempre più larga, fino al primo piano, dove gli scalini hanno un’alzata minima, in ricordo di quando i cavalli venivano portati fino al primo piano per accompagnare i nobili padroni.
Finalmente nell’atrio, Livio prende la sua bici, lega il cestino al portapacchi e … via.
I primi passi, per uscire dal portone, li fa col piede sinistro sul pedale e il destro che spinge, usando la bici come un monopattino. E poi l’inforca gettandosi a capofitto nel caos cittadino.
Auto, moto, autobus, pedoni ed anche un tram sferragliante che avanza col suo tipico scampanellio per chiedere strada agli altri utenti, che procedono senza tenere in nessun conto il suo diritto alla precedenza.
E Livio si getta tra loro zigzagando con pedalate rapide, scansando per un pelo veicoli e pedoni, spingendo più di uno a mandargli urla e improperi.
E così, per strade sempre meno affollate, arriva al porto. E qui di traffico non ce n’è, ma questo non gli fa smettere di zigzagare, anzi! Finché non imbocca un molo in cemento, al cui lato sono legate tante barche e in fondo al quale un gruppo di scugnizzi è intento a pescare.
“Livio!” urla uno di loro.
“Ciao Ciro” la sua risposta al volo, mentre smonta atletico dalla bici, “Abboccano?”
“Alla grande. Antonio ne ha preso uno così!” e fa un gesto chiarificatore, anche se forse un po’ esagerato, della dimensione della preda.
Livio abbandona la bici a terra, incurante della presenza del cavalletto, tira fuori la lenza dal cestino, appallottola un po’ di pasta al formaggio sull’ancorotto e getta l’esca a mare. Si siede sul molo gambe penzoloni ed inizia la sua attesa.
“Che giornata stupenda” fa Ciro, che nel frattempo s’è andato a sedere accanto a lui. E’ un bambino di non più di sette anni, minuto, nero come la pece, con due occhi che sembrano bruciare chi li guarda. “Dovrebbero essere sempre così le giornate, senza le maestre o le mamme a dirci cosa dobbiamo fare. Beato te”.
Livio sorride e guarda il mare. Dà uno strappo alla lenza, poi la recupera, ma senza convinzione. Mette una nuova pallina di pane e formaggio sull’ancorotto e lo rimette a bagno.
Ciro gli si avvicina ancora guardandolo con ammirazione: “Ma non posso venire a stare con te? Piacerebbe anche a me non avere scuola e papà e mamma a dirmi sempre quello che debbo fare!”.
“Tu non puoi, lo sai” gli fa Livio guardandolo con compassione.
Ciro abbassa la testa avvilito mentre Livio: “Zitto! Zitto! … Eccolo!” si agita ed inizia a tirare la lenza con lena. “Piano! Piano!” si incita da solo. “Calma e gesso, che se strappi si libera. Caso mai ti resta la mandibola sull’ancorotto, ma lui è via!”.
Ciro corre in cerca di un retino mentre Livio recupera con attenzione la lenza.
“E’ grossissimo, enorme!” quasi grida mentre solleva la preda con un sorriso incantato sulle labbra.
“Enorme!” gli fa eco Ciro, con gli occhi spalancati per la meraviglia e il piacere.
Anche gli altri ragazzini fanno circolo intorno a Livio e al suo bottino.
Livio getta il cefalo in un secchio e va a sedersi sotto un tabellone pubblicitario seguito da tutta la truppa. Spalle al tabellone e culo a terra, poggia una caviglia sull’altra, distendendo completamente le gambe, incurante del brecciolino che gli buca i polpacci.
Tira fuori dai calzoni un pacchetto di Marlboro morbide, una scatola di cerini e si accende una sigaretta tra gli sguardi ammirati di tutti gli altri.
“Danne una anche a me!” gli fa il più grande del gruppo, mentre si siede accanto a lui e distende le gambe sul cemento del molo. E’ un vero scugnizzo. Un paio di pantaloni larghi sotto una canottiera bianca appena più grande di quanto non serva, piedi nudi. Livio tira di nuovo fuori il pacchetto, gli picchia sopra più volte con indice e medio fino a farne uscire un paio e poi gliela offre.
“Anche a me” fa un altro. Livio lo guarda con indifferenza. Non dice nulla ma, continuando a guardarlo, rimette il pacchetto nei calzoni.
Livio e lo scugnizzo socchiudono gli occhi mentre fanno ampi tiri alle loro sigarette, in una specie di gara a chi fa gli anelli più tondi e più corposi, mentre lo stuolo dei piccoli li guarda incantato.
“Bella la vita!” sussurra Livio, voltando il viso verso il sole. Aspira un lungo tiro e caccia fuori il fumo facendolo uscire piano dalla bocca e facendolo risalire fino al naso, riaspirandolo dalle narici con avidità. Lo scugnizzo lo guarda ammirato e cerca di fare altrettanto, ma si impiccia e comincia a tossire, con Livio e i piccoletti che non nascondono i loro sorrisi di scherno.
“Andiamo!” fa Livio e si alza. Prende la bici seguito da tutti i ragazzini. “Chi ha la palla?”.
Un pallone arancio smagliante spunta all’improvviso tra i ragazzini che cominciano a tirarselo a vicenda con le mani, coi piedi. Lo scugnizzo alza la palla con le mani e dà un colpo di testa per farsi precedere dal pallone via via che si avvicinano ai giardini.
Come se l’organizzazione fosse stata curata lungamente, non appena giunti nello slargo i ragazzini cominciano ad organizzare il campo. Chi si toglie le scarpe, chi si sfila la maglia o la canottiera, chi impila i pochi libri che ci sono nel gruppo e cominciano a delimitare l’ampiezza delle porte alle due estremità della piazzola.
Livio e lo scugnizzo si portano al centro del campo.
“Per te, per te, per te!” e fanno il tocco. “Lui”, “Lui”, “Lui” ed uno alla volta scelgono i compagni di squadra. “E tu in porta”, quando scelgono il più piccolo che è rimasto per ultimo e che, un po’ intristito e a passi lenti, si va a posizionare tra i pali.
Ed inizia la lunga partita che si protrae fino al tramonto. Ma quando le prime tenebre calano sul giardino, a partire dai più piccoli e via via fino a Livio, abbandonano il campo e vanno a recuperare le loro povere cose.
Livio è sudato, come Ciro ed ogni altro. Tira fuori il fazzoletto dai calzoncini e comincia ad asciugarsi, la fronte, il petto, i polsi. Poi segue i più piccoli che si sono precipitati alla fontanella e beve con avidità, continuando ad asciugarsi col fazzoletto le labbra e le mani.
“Ciao!”, “Ciao!”, “A domani”, “Non so. Domani c’è scuola per noi”, “Va be’, alla prossima”.
Il gruppo si divide. Chi di qua, chi di la, da soli o a piccoli gruppi, il branco si separa.
Livio va a recuperare il cefalo dal cestino e, prendendolo con due sole dita, va a gettarlo nel cesto dell’immondizia. Si riavvicina alla fontanella, si lava accuratamente le mani e, dopo averle scosse più volte per liberarsi delle ultime gocce, inforca la bici e va via anche lui.
Si dirige distrattamente verso la zona del mercato, fino a raggiungere un circolo di quelli che una volta erano presenti in molti vicoli cittadini, pieni di flipper e biliardi, con molti vecchi intenti ad interminabili partite a carte e qualche tavolo da pingpong nel retro.
Livio smonta dalla bici ed entra nel circolo. Fa un giro per i locali angusti. “Ciao”, “Ciao” e si attacca a un flipper dalle luci fantasmagoriche. Infila la moneta nella fessura e … via, inizia il gioco.
Slam, smart, splash, flip, din-din-din , din-din-din, la biglia di acciaio corre su e giù per il piano inclinato. Da-dan, da-dan, da-dan, e sbatte contro un funghetto ostinato. Doppietta di alette, per recuperarla se tenta di uscire dal foro centrale. Colpo di reni, per aumentare l’impulso che gli imprimono molle e relè. E infine, fiuuuu, si infila centrale tra le due alette che non riescono a sfiorarla o si infila in un percorso laterale e va in buca.
E così per tutte le biglie del gioco più quelle dei bonus per un totale di 100,000,000.76 $, nuovo record della sala, che Livio va a segnare sulla lavagnetta dei record messa lì a bella posta.
Si stacca dal flipper e va a guardare una “goriziana” giocata da giovanotti maturi, tra i venti e i venticinque anni, ma loro non lo degnano di uno sguardo e Livio in breve si stacca dal biliardo e si allontana.
Ormai è scuro e i suoi coetanei sono tutti a casa, a cena, e Livio prima di montare spinge la dinamo sulla ruota anteriore, poi inforca la bici e parte. Deve fare ancora un po’ di strada prima di tornare a casa e ne approfitta per passare davanti al cinema del dopolavoro aziendale alle spalle della Posta. Ma fanno ancora un film di Totò e Livio ormai li sa tutti a memoria.
E così, un po’ seccato di dover terminare la serata così presto, si dirige a casa. Apre il portoncino pedonale ricavato nell’enorme portone di scuro legno massello e tira dentro la bici. La poggia vicino al casotto del portiere e si avvicina all’ascensore. E’ un ascensore di quelli antichi, dalla struttura in ferro che sembra una piccola torre Eiffel, aggiunto nell’ampio atrio del palazzo ed accostato al centro dello scalone vanvitelliano, non raggiunge nemmeno tutti i piani. Arriva solo fino al terzo poi occorre proseguire a piedi.
E così fa Livio, con passi lenti fino alla sua porticina, poi si ferma e controlla. Il suo sguardo gira lungo il perimetro della porta e sorride. Il pezzetto di cartone che ha infilato tra l’anta e lo stipite è ancora lì. Non è entrato nessuno.
Infila la chiave nella toppa e le fa fare quel mezzo giro che basta per sentire lo scivolo che arretra.
Spalanca la porta e accende la luce.
Seduto sulla poltrona un uomo dall’apparente età di trentacinque–quarant’anni. Biondo, ben pettinato e rasato, non troppo alto ma di una corporatura asciutta che lo fanno apparire anche più alto di quel che è, in un elegante abito grigio chiaro con calze di seta e scarpe di vitello nero lucidissime.
Il suo profumo ha riempito la stanza, sovrastando e di molto il profumo delle mele nel sacco.
“Ciao zio!”. Livio nasconde la sua perplessità nel vedere che qualcuno è entrato nonostante le sue precauzioni. Getta con noncuranza il pezzetto di cartone che gli avrebbe dovuto denunciare l’intrusione e chiude la porta alle sue spalle.
“Sei qui da molto?” fingendo un interesse che proprio non prova.
Lo zio tace. Si aggiusta sulla poltrona e accavalla le gambe mettendo in evidenza i risvolti dei pantaloni e le lunghe calze grigie.
“Se sapevo che mi aspettavi, rientravo prima” mente Livio. Scosta una sedia dal tavolo e vi si siede alla cavallerizza, inforcandola con le gambe e poggiandovi le braccia e il mento sopra la spalliera.
“Non puoi rimanere qui. Un bambino di otto anni non può vivere da solo”. Il tono dello zio è perentorio. Non si aspetta neanche un contraddittorio.
“Ma zio” - prova a dire Livio - “io qui sto benissimo. Non ho problemi, me la cavo, sono libero, non do fastidio a nessuno”.
Lo zio si tira un po’ su sulla poltrona e si sporge leggermente in avanti sorridendo leggermente: “Non dubito. Chi non vorrebbe vivere nella tua condizione, ma ci sono doveri: la famiglia, la scuola”.
“Sono mesi che sto qua, ci sto così bene!”
“Devi studiare. La vita del vagabondo non si addice a gente come noi. Mica vorrai fare il barbone da grande!?”.
““Certo che no! Ma non vedo perché non posso continuare a stare da solo! Potrei anche andare a scuola se fosse proprio necessario”.
Livio è tutto rosso, un po’ preoccupato di dover lasciare il proprio stile di vita, un po’ seccato da tanta ingerenza.
“Non sono mica il solo a vivere così! Vedi? “ e indica il sottotetto proprio sopra casa mia. “Vedi lì? Lì c’è un bambino un po’ più piccolo di me che vive anche lui da solo. Francesco. E’ libero! Felice! Sono anni che vive lì. Mangia quando vuole, si lava quando vuole, non va a scuola ma è intelligentissimo lo stesso”.
Lo zio getta uno sguardo di sbieco al mio sottotetto, ingombro di polvere e robaccia inutile. Poi si gira verso Livio e con fare tra il paterno e il compassionevole gli carezza i capelli.
“Ma sì! Non mi credi? Francesco ha un sacco di amici, è un asso con la bici. Piazza un record dopo l’altro a flipper, a pallone gioca da dio, oggi ha segnato tre gol, e non ti dico cosa è capace di fare a “goriziana” o a pingpong. Rovescia 100 figurine con uno schiaffo solo e stamattina ha pescato un cefalo grande così!” e allarga le braccia per un gesto chiarificatore, anche se esagerato, della dimensione del cefalo che aveva pescato lui la mattina.
Lo zio ripete un paio di volte la carezza sulla sommità del capo di Livio, lasciando che la vertigine che si inalberava sulla sua testa continuasse a spuntare tra le sue dita. Poi si china e prende la mano del bambino facendola praticamente sparire nella sua. Senza parole, ma con un fare che non ammette replica, lentamente si avvia verso l’uscita.
E Livio lo segue, docile. Getta solo uno sguardo verso il sottotetto che sovrasta la mia stanza da letto e scompare. Non lo vedevo più … e non l’ho visto mai più. Il buio sembrò ingoiare lui, lo zio e tutta la felicità che mi dava il saperlo libero nel suo regno.
La mattina dopo, guardando verso il suo rifugio, attraverso le finestre senza vetri ho visto solo un sottotetto come il mio, ingombro di polvere e robaccia.
Chi sa se l’avevo chiamato Livio , inconsapevolmente, perché Livio viene da “pallido”, “livido” o perché è il nome più simile a “lieve”; il nome più adatto per un “fantasma”, per un “amico immaginario”.

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