La leggenda di Partenope
Diverse sono le leggende relative alla fondazione di Partenope, la colonia greca in cui affonda le proprie radici la città di Napoli.
Diverse, in particolare, sono poi le leggende tese a giustificare l'origine del nome di questa dolcissima città.
Fulvio Caporale ci racconta tre di queste bellissime storie.
La leggenda di Partenope
(l'eterno canto di Partenope)
La ricchissima tradìzione della mitologia greca riserva alla
leggenda della fondazione di Partenope almeno tre storie, in
versioni molto dissimili nei contenuti e anche nei valori di
volta in volta messi in evidenza.
La prima leggenda di Partenope coincide con il mito delle tre sirene che scelgono di
morire, forse per la delusione di non essere riuscite a fermare
il marinaio Ulisse, pur estasiato dal loro canto.
Il corpo che il mare depone sul lido dì Megaride, la piccola
penisola dove ora si trova Castel dell'Ovo, è appunto
quello di una delle tre sirene, Partenope, e di qui il nome alla
città che nasce.
Questa leggenda del mito di Partenope ebbe maggiore considerazione e diffusione quando
Napoli, sin dalle cronache di Petronio e Apuleio, poi nelle
più diffuse pagine di Petrarca e Boccaccio, cominciò a configurarsi
come la città dei suoni e dei canti, peculiarità che ben
si accordava con la leggenda delle sirene e del loro canto
melodioso e tentatore.
In pratica sottolinea un motivo religioso, il trasferirsi e il
diverso ambientarsi del culto delle sirene dalle rive
dell'Egeo, dove già era praticato da tempo e molto diffuso a Rodi e a Creta, ai luoghi nuovi della Magna Grecia; qui le donne uccello assumono il corpo dì un pesce
dalla cintola in giù e sono attestate sulle rocce e gli scogli
posti davanti a Positano, che noi ora chiamiamo Li Galli,
mentre dagli antichi erano chiamati Sìrenussai, gli scogli
delle Sirene.
Zecca di Neapolis: moneta greca (didramma) Testa della ninfa Partenope
La seconda leggenda è forse quella più diffusa, ripresa anche da
Matilde Serao nelle sue
Leggende e parla di una bellissima
principessa greca, ovviamente Partenope, innamorata del
suo Cimone. amore contrastato dal re suo padre, che invece
l'aveva promessa in sposa a un altro pretendente.
I due decìdono allora di fuggire su una nave verso l'ignoto,
sbarcano poi per loro fortuna sui litorale campano e qui la leggenda vuole che
vìvano finalmente la stagione del loro amore, in una terra
dolce di fiori e di luci dove la primavera è eterna.
Aurelio Fierro afferma che
"il canto d'amore di Partenope
lo consideriamo nastro di partenza della storia della canzone
napoletana".
Si tratta, come vedete, di una leggenda dove sono già
disponibili tutti, proprio tutti gli ingredienti che appartengono
a una certa, più nota "napoletanità", l'allegria, l'amore,
la splendida natura e il canto e in più il finale "tarallucci e
vino" che conclude una storia d'amore contrastata.
Chiaramente questa leggenda viene riportata da chi vuole mettere in rilievo
proprio queste peculiarità tra le diverse sfaccettature
compatibili a ricomporre l'universo partenopeo.
Esiste una terza storia, una terza leggenda di Partenope, certamente poco conosciuta ma a
mio avviso storicamente più credibile e meno leggendaria,
soprattutto vicina, credo, alla sostanza spirituale che intende
rappresentare.
Vi si narra di una regione greca da anni tormentata da una
grave carestia e di un re che tenta dì sottrarre almeno un
gruppo di giovani al destino incombente, lo colloca su alcune
navi e lo invia, senza mezzi e senza provviste di cibo,
verso la terra promessa della Magna Grecia.
Era un'usanza abbastanza diffusa in Grecia, mentre
imperversavano grandi carestie, solo in apparenza feroce e
spietata, perché comunque ai più giovani si concedeva una
possibilità di iniziare altrove una nuova vita, forse con meno
privazioni e per chi rimaneva risultavano diminuite le bocche
da sfamare.
All'epoca non era facile attraversare quel tratto di mare,
tra bufere, stretti perigliosi e improvvise e prolungate assenze
di vento e questo viaggio, già disagevole per le condizioni
di partenza, diventa per i nostri giovani ancora più
drammatico.
Muore infatti di stenti, forse di fame, la più giovane delle
tre principesse reali che erano a bordo, la dolce Partenope,
proprio nel momento in cui la nave è finalmente giunta al
sicuro, all'interno dei golfo.
Il primo atto, dunque, della futura città, appena dopo lo
sbarco, è il funerale di Partenope (da
partenu-opxis, volto di
fanciulla), ancor più solenne nella teatrale e scenica liturgia
funebre dei greci.
Tutti gli avvenimenti di questa terza leggenda sono assolutamente casuali e attendìbili,
rispecchiano movimenti e condizioni storiche propri
di un'epoca, senza ricorrere ai mostri mitologici, come la
prima leggenda e non vi è alcun tentativo di confezionare
una storia con artifici, adattandola a situazioni di fatto, come
nella seconda.
E a me sembra possano meglio segnare l'impronta iniziale
che poi accompagnerà costantemente nel suo cammino lo
sviluppo di una città dove, come scrive Gino Doria, persino
sui volti dei giovani che impazzavano per le strade a
Pìedigrotta si scorgeva "un lievito di tragicità, un senso
accorante di lugubre malinconia".
E addirittura un non napoletano, il toscano Renato Fucini,
ha percepito l'identica impressione, nel suo
Napoli a occhio
nudo, dove, parlando della stessa festa, accenna a sensazioni
di tristezza, malinconia o addirittura di tragicità.
Accentuazioni che non sono del tutto assenti, anche se in
misura diversa, nemmeno sulle maschere più celebri e rappresentative
di Totò e Eduardo.
(Fulvio Caporale dalla rivista l'Alfiere)