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La scimmietta



di Francesco Arrichiello

La ricordo benissimo, come potrei mai dimenticarlo.
L’avevo desiderata tanto ed era arrivata.
Era nella vetrina di “Leonetti”, il più bel negozio di giocattoli che c’era su via Roma.
E tutte le domeniche, dopo la sosta d’obbligo al bar “La scimmia” ci si passava davanti.
E così erano due.
La prima al bar, ma io lì non ho mai visto quella vera.
Ho visto sempre solo quella finta, usata dai proprietari come insegna, anche se di quella vera se ne parlava ancora.
Il proprietario sembra, dico sembra perché riporto cose sentite ma non viste e ai bambini si raccontano tante cose, il proprietario, dicevo, sembra che la tenesse esposta nel bar sopra un trespolo, come ho poi visto fare con i pappagalli o i merli indiani.
E sembra che fosse golosa (o goloso, chi potrebbe mai dirlo) di gelato. E il proprietario la rimpinzava di gelati “banana”, quelli buonissimi a forma e gusto di banana, sullo stecco di legno e di cui andavo ghiotto anche io e un po’ mi seccava di condividere gli stessi gusti di uno scimmiotto.
Oggi non sarebbe più possibile. Qualche animalista sfaccendato inoltrerebbe petizioni, organizzerebbe sit-in, scioperi della fame, darebbe vita a movimenti come “Scimmia libera” con slogan del tipo “Liberiamo la scimmia del bar e chiudiamo la scimmia che è in noi e consente tali brutture”.
Ma allora era possibile e i bambini entravano nel bar per guardare la scimmia golosa o, come nel mio caso, con l’inconfessata speranza di vederla prima o poi mangiare il gelato “banana”.
E poi c’era l’altra. Quella di “Leonetti”.
A proposito, poco tempo fa quasi mi veniva un coccolone. Sono passato per via Roma e mi è sembrato che i locali di “Leonetti” fossero stati occupati da una frigitoria. Ma era solo un incubo. “Leonetti” era ancora là. La sua vetrina non era più così attraente come allora, ma c’era, c’era ancora e questo non poteva che rassicurarmi. Le cose belle vivono ancora.
Ma torniamo alla scimmia di “Leonetti”.
Era in vetrina. Lo è stata per anni, secoli. Sapete, per i bimbi il tempo passa in fretta, lunghissimo.
E io mi attaccavo col naso, che immagino moccioso, alla vetrina, per vederlo compiere le sue evoluzioni.
Si, perché non era uno scimmiotto fesso di cui ho visto poi centinaia e centinaia di repliche, di quelli di peluche o di panno marrone, senz’anima.
Il “mio” scimmiotto era mobile, vivo.
Ma non vivo come la scimmia del bar “La scimmia”, ma vivo perché incardinato con le zampe anteriori su un asse, una sbarra come quelle su cui si fanno gli esercizi ginnici, tenuto in perpetua rotazione da un motorino che non si fermava mai, neanche quando il negozio chiudeva. E si potevano ammirare le evoluzioni dello scimmiotto anche la domenica, attraverso la saracinesca fatta ad arte a maglie larghe, in modo che i bimbi si potessero fermare e guardare l’interno.
Perché all’interno non c’era solo lo scimmiotto, c’era anche un trenino di quelli piccolissimi che girava ininterrottamente su un plastico enorme tra praterie e tunnel scavati nella roccia, passando davanti stazioni e agglomerati di case piccole piccole. O almeno, io così me lo ricordo.
Ma lo spettacolo era lui, lo scimmiotto.
Si inarcava, si distendeva, ruotava intorno all’asse, si alzava sulle zampe anteriori, si posava con la pancia sulla sbarra, continuava a ruotare finché le zampe posteriori non crollavano in avanti e allora si sbizzarriva. Ciondolava, si stendeva, entrava con le zampe posteriori tra quelle anteriori, si incastrava. E poi ruotava di nuovo, e di nuovo, in evoluzioni sempre uguali e sempre diverse. E mia madre, che ne aveva di pazienza ma prima o poi si stancava anche lei, mi doveva tirare per farmi staccare e mi doveva pulire col fazzoletto, che provvidenzialmente tirava fuori dalla borsetta, per togliermi dalle manine il grasso della saracinesca, alla quale mi ero aggrappato con tutte le mie deboli forze.
Non facevo troppe storie, non piangevo. Sapevo che lo scimmiotto sarebbe rimasto lì ad aspettare che tornassi. Anche lui destinato, come tutto il mondo che mi circondava, a vivere la sua vita con l’unico evidente scopo di farmi felice.
E sì, perché tutti quelli che mi circondavano non avevano altra funzione, altro scopo nella vita, se non di far felice me.
Almeno, così mi sembrava allora, ma forse così mi sembra anche oggi, ma questa è un’altra storia.
Ero il primo figlio maschio nato in una famiglia, quella di mia madre, tutta femmine.
Sei figli con l’unico maschio che s’era già sposato ed era andato via di casa. Mio nonno neanche si vedeva, mio padre manco a parlarne, ed io ero il bambolotto di questo esteso gineceo composto da mia nonna e le sue cinque figlie femmine.
Come pensate si possa svolgere la vita di un bimbo tra tante mani amorose, tra tanti sguardi contemplativi?
Ero felice, di esserci, di essere bello, di avere le guanciotte piene, di avere una pelle dolce da accarezzare e baciare e, qualche volta, ma solo qualche volta e senza insistere troppo, anche pizzicare.
C’era sempre una caramella per me, un sorriso, una mano pronta a rialzarmi.
Mia madre  e le sue sorelle, che non erano ancora sposate e, non essendo ancora sposate, come allora si usava, non avevano figli, non avevano altre attenzioni che per me.
E quando giunse il giorno del mio compleanno, non saprei dirvi se quello dei cinque o dei sei anni e non ho più a chi chiedere per avere conferme per questi ricordi vivi ma pieni di bambinesche incertezze, la mia zia più giovane, che a me sembrava anziana già allora ma non doveva avere più di ventitré o ventiquattro anni, si presentò a casa con un paccone.
“E’ per te”.
Ricordo che lo scartai, da una carta marrone più simile a quella per i pacchi postali che per quella che oggi si userebbe per un regalo. Dura, lucida, resistente. Faticai a romperne il primo pezzetto, ma, man mano che i pezzi di carta si staccavano, si squarciavano e lasciavano intravvedere il contenuto del pacco, le mie mani si facevano più intraprendenti, i miei gesti più rapidi, la mia tensione più forte, finché lo scimmiotto sulla sbarra non fu completamente scartato.
Tutto il gineceo al gran completo mi era intorno, per godere della mia felicità.
E lo scimmiotto iniziò le sue evoluzioni, ma stavolta solo per me.
E’ vero, c’erano tante persone intorno, ma quelle altre guardavano me.
Solo io guardavo lo scimmiotto, che si inarcava, si distendeva, ruotava intorno all’asse, si alzava sulle zampe anteriori, si posava con la pancia sulla sbarra, continuava a ruotare finché le zampe posteriori non crollavano in avanti. E poi ciondolava, si stendeva, entrava con le zampe posteriori tra quelle anteriori, si incastrava. E poi ruotava di nuovo, e di nuovo, in evoluzioni sempre uguali e sempre diverse.
Ed io ero lì seduto col culo per terra, coi pantaloncini corti, perché allora si usavano i pantaloncini corti, a guardare lo scimmiotto che ora era solo MIO.
Certo, sarebbero venuti a vederlo anche altri bambini.
Qualcuno del palazzo, un mio cugino da parte di padre che prima o poi sarebbe venuto a farci visita, ma lo scimmiotto era mio. Non avrebbero potuto toccarlo. Guardarlo sì, ma toccarlo no. Era il mio.
Non so quanto tempo sono rimasto col culo a terra a guardarlo.
Non so neppure se andava a pile o a corrente o a molla. So solo che girava, volteggiava, cadeva, si stendeva e tutto questo solo per me. Portava a termine il compito per il quale era stato costruito, il motivo per cui “viveva”: farmi felice.
E io ero felice.
Probabilmente il moccio scendeva giù dal naso e, ancora più probabilmente, qualche premurosa zietta avrà tratto di tasca un fazzoletto ed avrà provveduto a pulirmi.
Anche lei svolgeva con attenzione il suo compito, il motivo per cui “viveva”: farmi felice (e tenermi pulito).
Si saranno alla fine stancate. Saranno andate vie, mia madre e le zie. E mi avranno finalmente lasciato solo nella mia cameretta, che non era poi tanto una cameretta. Oggi in una “cameretta” come quella ci si farebbe un salotto. Ma allora, nelle case antiche di via Roma, che probabilmente sono ancora tutte così grandi, ma molte saranno state soppalcate e divise, ogni stanza era una piazza d’armi. E anche la mia cameretta era una camerona.
Ed ero rimasto solo con il mio scimmiotto.
S’era fermato. Non so se perché andando via qualche zietta premurosa aveva staccato la corrente, se s’erano scaricate le pile, se la molla aveva finito la sua corsa. So solo che lo scimmiotto era fermo.
Non era in una situazione di riposo.
Non era disteso sotto la sbarra, come sarebbe giusto pensare.
Era in una posizione innaturale. Le braccia (brutto chiamarle ancora zampe anteriori, ormai era il MIO scimmiotto) erano in alto, attaccate ovviamente alla sbarra, dietro il busto. Busto che oscillava ogni volta che lo sfioravo con le manine. Oscillavano il busto e le zampe posteriori, che erano disarticolate rispetto al busto e gli permettevano ancor più strane evoluzioni.
Cominciai a studiarlo con attenzione. Aveva in testa un fez rosso con un grazioso codino nero. Un muso indisponente, coi labbroni, che oggi avrebbero fatto sospettare iniezioni di botox. Il petto, villoso come si conviene ad un grosso scimmiotto, era coperto da un gilet damascato a gigli gialli. Le zampe posteriori, villose come il petto e le braccia, erano infilate in un paio di mutande di seta verde. I piedi, invece, erano nudi, con il grosso allucione che sporgeva staccato dalle altre dita, proprio come se fosse pronto a mostrare la propria qualità di essere prensile e opponibile alle altre dita.
Li sfioravo, gli allucioni, e lui ondeggiava. Ma non piroettava più sull’asse. Ciondolava un po’, poi si fermava. Occorreva ancora un colpetto per fargli riprendere vita. Un colpetto, un colpetto e poi un altro.
Sembrava in sciopero. Sembrava aver esaurito il suo compito. Ormai mi aveva fatto felice, che bisogno aveva di stancarsi ancora.
Sembravo rassegnato e anche io, a vederlo ormai immobile, in quella sua posizione innaturale, pancia in fuori, in attesa di un altro colpetto.
Cominciai a studiarne tutta la struttura, a prenderlo e poggiarlo sul pavimento, non sulla sua base ma coricato, di modo che lo scimmiotto toccasse con i piedi per terra, potesse, per così dire, riposarsi.
La base era in metallo, come si usava a quei tempi, tempi in cui la plastica ci era nota solo per i mastelli azzurri che stampava la Moplen.
Questa base era in metallo smaltato di rosso dove erano infissi i pali portanti della sbarra alla quale era attaccato Scimo (già, perché lo scimmiotto ormai aveva un nome. Un nome che probabilmente non lo avrebbe fatto felice, ma che a me dava allegria).
Ai due lati della base si stagliavano in bella evidenza con i loro corpi neri quattro viti.
Non erano di quelli a stella che si usano tanto oggi, ma di quelle con l’incisione a taglio. Semplici. Neanche troppo piccole.
Le sfioravo con le dita (ditini, direi ora), per sentirne il contrasto col resto della base.
Erano in leggero rilievo e la punta dell’invaso a taglio era anche aguzza. Grattava.
Andandoci sopra con l’unghia se ne sentiva la discontinuità col resto della testa della vite.
La mia camera era grande, l’ho già detto. C’erano, oltre al mio letto, una scrivania con poltrona monumentale, credo sia stata di mio nonno quando faceva studio a casa, un armadio, anch’esso dalle dimensioni bibliche e nel quale trovavano ricovero anche molte cose delle zie, un vecchio comodino, su cui troneggiava il lume da notte, i miei giochi tra i quali primeggiava una palla arancione che doveva essere grande quasi quanto me.  E rimaneva tanto spazio. Tanto che potevo dare colpi al pallone e far risuonare i muri, quando mio nonno era fuori.
Mi arrampicai quindi sulla poltrona e di lì sulla scrivania e presi una chiave che da sempre sostava in un piattino di argilla con tanti altri oggetti inutili, di cui oggi ogni madre terrorizzata condannerebbe la presenza in una stanza da bambino.
Col mio trofeo in mano scesi dalla poltrona per sentire con la punta della chiave l’asperità di quella vite.
E’ vero, si sentiva. Anzi ora quasi risuonava per lo sfregamento di quei due corpi metallici.
Avrei potuto passarci ore.
Ma, come si sa, se una ne fai cento ne pensi. E la chiave era troppo grossa per entrare nell’incisione della vite. La si poteva accostare, far risuonare, ma non entrava nel taglio.
Non l’ho ancora detto, ma in fondo alla mia cameretta (camerona), dissimulata dal parato di cui era ricoperta, ovviamente uguale a quello di cui erano ricoperte le pareti della stanza, di un verde pallido che mi sembra di ricordare punteggiato da macchioline bianche, c’era una porticina per accedere ad uno stanzino. Un vano ricavato nel sottoscala di una grande scala confinante con la mia cameretta e che portava al piano superiore della casa.
In questo vano mio nonno ci teneva gli attrezzi. Nulla di particolarmente pericoloso. Nessun trapano elettrico. Nessuna sega a nastro. Il minimo indispensabile per qualche lavoretto da fare in casa. Un martello, una pinza, dei succhielli, un paio di tenaglie ed una quantità inenarrabile di giraviti. Più grandi, più piccoli, dal manico nero, dal manico rosso, lunghi, corti, cortissimi. Li ricordo tutti a taglio, non so se le viti a stella erano già in commercio e se mio nonno ne aveva già scoperto l’esistenza, ma lì i giraviti io li ricordo tutti a taglio.
Entrai nello sgabuzzino e ne presi uno, lo scelsi con cura, non troppo grande né troppo piccolo.
Ricordo che lo maneggiavo con sicurezza.
Tornai da Scimo col mio trofeo tra le dita.
Infilai il mio giravite nell’incisione della prima vite e cominciai a girare.
Girai senza problemi e la vite cominciò ad uscire. Prima solo la testa, poi tutto il corpo. Lunga. Lunga, finché non cadde.
A questo punto potei iniziare a svitare la seconda e poi la terza.
Caddero con un suono argentino, direi allegro.
Attaccai quindi a svitare la quarta.
Era la più dura o, forse, la mancanza delle altre tre aveva un po’ sconnesso questa specie di scatola che, da sotto allo scimmiotto, governava le sue evoluzioni.
Dovetti faticare un bel po’ perché anche la quarta vite uscisse dal suo alloggiamento.
Chi sa cosa accadde, penserete voi.
Nulla. Non accadde nulla.
E così mi ritrovai con le quattro viti a terra e la base del giocattolo ancora intatta.
Solo che la base non era compatta.
Era come una sorta di scatola messa sotto sopra con un coperchio a chiuderne il fondo. E tra l’involucro esterno ed il tappo che la chiudeva c’era una piccolissima feritoia.
Il giravite che avevo in mano non c’entrava.
Dovetti rialzarmi ed entrare di nuovo nello stanzino per cercare con accuratezza un giravite più piccolo.
Ce n’erano anche da orologiaio in una scatolina di legno.
Ne scelsi uno non troppo piccolo.
Tornai al mio gioco e verificai il taglio. Era perfetto.
Il giravite che avevo scelto entrava perfettamente in quella piccola feritoia.
Feci un po’ di leva, ma non troppo. Il minimo per vedere se usciva.
Uscì. Ma non uscì da solo. Uscì con una miriade di molle e ingranaggi, di cui alcuni rotolarono dispettosamente per il pavimento.
Raccolsi tutto e tentai di rimettere tutto da dove era uscito.
Impresa vana.
Cercai allora di richiudere la scatola comunque, anche se diversi pezzi erano ancora per terra.
Il coperchio non entrava più.
Il tappo era ormai ostruito da molle e ingranaggi scoperti e non poteva più rientrare nella sua sede.
Cercai allora di rimettere in piedi il gioco, ma le assi portanti della sbarra non erano più solidali con la base e Scimo penzolava penosamente, come disarticolato.
Rimasi un po’ lì a rimirare il disastro.
Non venne nessuno a risolvere, né, tantomeno, a sgridarmi. Che tanto poi lo sapevo: il gioco era MIO e ne facevo quello che volevo.
Aveva concluso la sua missione, completato il suo ciclo. Mi aveva incantato, fatto sognare, divertire ed ora anche un po’ soffrire, ma solo un po’. Poteva anche finire.
Raccolsi qualche pezzo sbandato, presi Scimo con tutto il suo piedistallo e andai a riporlo su una scansia dello sgabuzzino. Rimisi i giraviti lì dove li avevo trovati, richiusi pure con cura la scatolina dei giraviti da orologiaio e mi andai a mettere sul letto.
Mi addormentai di colpo, felice.
Non ricordo reazioni al disastro che avevo appena compiuto e che ora riconosco come tale.
Sicuramente qualcosa mi sarà stata detta. Chi sa quante prediche e predicozzi che però non ricordo.
Ricordo il senso di appagamento.
Quello che era nato ed aveva vissuto per farmi felice era finito. L’avevo finito io, con le mie mani.
Non si era rotto, non mi era stato sottratto da un cuginetto prepotente o da un amichetto invadente.
L’avevo aperto e rotto io.
Certo l’avevo aperto per vedere come funzionava, per comprendere cosa lo tenesse in piedi, come lo si faceva volteggiare su quelle zampe anteriori pelose, ma il fatto che si fosse rotto, che non potesse più svolgere quella funzione mi lasciava indifferente.
Scimo il suo l’aveva fatto. E io pure.
Avevo raccolto tutto il bello, tutta la gioia che mi poteva dare. Che ora giacesse abbandonato nello stanzino, disarticolato ed immobile, non mi faceva venire nessuno scrupolo, nessun senso di colpa.
E’ stato un po’ così tutta la vita.
Molti giocattoli da bambino ho aperto per vedere come funzionavano.
Anzi, per vedere SE funzionavano, nonostante i supplizi che gli infliggevo.
Da grande, più avanti nel tempo, anche molte amicizie e molti amori hanno subito la stessa sorte.
Sono stati aperti, scuoiati, ne è stata portata alla luce la carne viva.
Coscientemente o meno, ho aperto, scuoiato, portato alla luce la carne viva. Ho provocato dolore.
Non l’ho fatto con la consapevolezza di provocare tutto il dolore che ho visto. L’ho fatto con la incoscienza del fanciullo. Con la stessa incoscienza con cui ho aperto la base dello scimmiotto e disarticolato le sue membra.
Ma avevano concluso il loro ciclo. Mi avevano già fatto felice. Avevano già assolto al loro compito.
Ed io, distruggendoli, al mio.

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