Dei sensi a disposizione la vista è sicuramente il più ‘spaziale’. Il campo visivo può comprendere oggetti posti a distanze cosmiche e viceversa oggetti minuscoli posti a qualche centimetro dal nostro occhio. L’orecchio nudo, compatibilmente con le frequenze minime e massime percepibili dall’uomo, gode di un ordine di ingerenza assai inferiore. L’olfatto ancora meno, il tatto lavora a distanza zero. Il gusto opera addirittura con metrica a valori negativi, è attivo infatti all’interno del cavo orale. Il c.d. sesto senso ha localizzazione e attività metriche ancora più intime, in qualche parte del nostro cervello.
La vista è dunque il gigante dei sensi.
La presenza dei fenomeni attivi nel nostro campo sensoriale, visivo in particolare, oltre quelli percepibili con strumenti, porta al continuo arricchimento del patrimonio informativo.
Fatta eccezione per le regressioni intellettive dovute a brevi o duraturi percorsi esistenziali dove il programma evolutivo causalmente o casualmente conduce a inversioni di tendenza, i semplici dati, le informazioni derivanti e l’edificazione di processi mentali, vengono via via alimentati e riusati nella nostra vita quotidiana in un ciclo virtuoso senza fine, con qualche pausa di riflessione; sono questi i momenti in cui, prima di proseguire per affrontare e condividere nuove esperienze, poniamo delle premesse che sono frutto di ordinamenti e catalogazioni di ciò che abbiamo ormai consolidato e riteniamo essere dei punti di consistenza.
Nel metodo deduttivo umano tali premesse sono necessarie per capire di cosa stiamo parlando o cosa stiamo studiando. Usiamo dunque delle definizioni o facciamo riferimento a delle verità evidenti a chiunque, gli assiomi. Definizioni ed assiomi sono dunque indispensabili tasselli del nostro programma cognitivo.
Non è sempre necessario e/o sufficiente tuttavia utilizzare premesse conclamate per andare avanti. Talora è risultato utile immaginare alcune possibili combinazioni di eventi mai osservati e verificati o magari a cui non diamo affatto credibilità, addirittura non graditi, le ‘ipotesi’, anche nell’auspicio che queste non abbiano seguito.
Quando infine assumiamo per vero un qualcosa che serve per non arrestare un ragionamento, a prescindere dal gradimento, adoperiamo i ‘postulati’, ammessi provvisoriamente per il fine che ci proponiamo.
I postulati si accettano in ogni caso solo se conformi alla nostra comune visione immaginativa, visione derivante dall’osservazione di cause ed effetti. Per esempio il postulato che introduce più di tre dimensioni nello spazio, si giustifica indipendentemente dalla possibilità o meno di uno spazio fisico pluridimensionale, è una entità soprattutto matematica (sistemi di curve, superfici ecc.) che in senso astratto possono ritenersi come spazi a più dimensioni.
Per i fisici il concetto di spazio è intimamente connesso al concetto di realtà, ma per i matematici non è così. Del resto la scienza in generale è pervasa di casi in cui dalla osservazione di fenomeni fisici, essi stessi sono stati riportati e quindi studiati su quaderni teorici, per poi tornare in laboratorio o in sala operatoria o per la diga di Assuan, con realizzazioni di nuove e migliorate realtà.
Tre sono state le mie nonne, due anagrafiche ed una di fatto. Avevo una sola nonna di fatto perché quella materna se ne è andata prematuramente e la seconda ufficiale non andava d’accordo con mia madre e a noi nipoti non piaceva proprio.
Virginia abitava sul nostro stesso pianerottolo e la sua porta di casa per me era sempre aperta, mi coccolava, mi viziava, mi accoglieva quotidianamente, nascondeva goffamente la sorpresa di trovarmi sull’uscio, faceva delle patatine fritte che fuori dell’olio sopravvivevano pochi minuti prima di ricoverarle nel mio pancino. A lei devo non solo qualche chilo di troppo ma anche la memoria di tutto ciò che studiavo, ancora oggi posso recitare le poesie per l’esame di terza media.
Facevo io il caffè, tre macchinette alla napoletana, duravano per tutta la giornata e per le tante sigarette che fumava. Lo faceva con una gestualità affascinante, mai in piedi, si metteva in poltrona e ad ogni nuvoletta mi sorrideva e mi raccontava qualcosa, era anche un po’ pettegola e la sua vittima preferita era la cognata, zia Nina, avanti con l’età ma con due caratteristiche ancora intatte, la bellezza e l’ignoranza.
Quando veniva a farle visita, ci piazzavamo in salotto ammirando i suoi splendidi
occhi azzurri e attendendo con ansia l’immancabile scivolata lessicale che ci faceva incrociare gli sguardi complici a malapena seri. “No grazie, niente vermut, lo sai che sono astenga …“ “Nina, si dice astemia” “Oh scusate, ho avuto una piccola amnistia”.
“Vabbe’ Mauro fa’ vedere a zia Nina come prepari bene il caffè”. Ed io andavo e tornavo con tutto l’occorrente sistemandolo su di un splendido tavolino a tre piedi, ma questa è un’altra storia.
Non è una questione di risparmio, un tavolino a tre piedi è meno traballante di uno che ne ha quattro. Tuttavia si parla di piedi, prolunghe di un’unica gamba sovrastante il baricentro del piccolo mobile che per quanto stabile possa essere, più i suoi piedi sono vicini al centro e più l’equilibrio ne è a rischio. Basta un piccolo sussulto, o l’insieme di concause da sole impercettibili per farlo inclinare.
Nelle sedute spiritiche più persone siedono attorno al tavolino e meno forza devono imprimere singolarmente per influire sulla stabilità dell’oggetto. L’effetto viene poi amplificato se si crea la cosiddetta catena.
Gli umili mignoli lavorano anche in orizzontale a contatto col vicino, trasmettendo e ricevendo ogni stimolo piccolo a piacere. Se e quando l’insieme di queste minime forze raggiunge una soglia di sufficiente sincronizzazione allora anche i soli battiti cardiaci possono generare un risultato macroscopicamente evidente sulla stabilità del tavolino.
Ed interviene ancora qualcos’altro.
L’istinto, ovvero l’origine dell’insieme di quelle piccole o grandi iniziative non programmate e non governate da alcuna razionalità scientificamente descrivibile, si va ad aggiungere alle piccole pulsazioni epidermiche e micro-fibrillazioni neuronali, accogliendo ciò che liberamente circola nelle celluline grigie, esprimendole attraverso una specie di scorciatoia, senza passare per la canonica e codificata elaborazione del sistema centrale.
Quando due corpi, di massa diversa, cioè sempre, nel loro orbitare nello spazio secondo le regole gravitazionali, si scontrano, si generano tra l’altro onde che banalmente generano una variazione indeterminata dello stato di calma apparente del laghetto cosmico.
Quando due impulsi anche epidermici entrano in un piccolo conflitto il risultato può, anzi sicuramente coinvolge anche le masse adiacenti ed il loro stato inerziale, insomma il tavolino, instabile per natura, è assoggettato alla forza/volontà inconscia della massa principale presente e dalla filiera della altre masse via via condizionate.
Eravamo riuniti per noia una notte d’estate senza idee migliori sui gradini di un bar ormai chiuso e scegliemmo uno dei tavolini a riposo per obbligarlo ad uno straordinario. Ci accostammo in sette.
Poggiammo un piattino che sulla sua piccola circonferenza recava le lettere dell’alfabeto italiano. Al suo centro ponemmo una biglia da spiaggia. Sarebbe stata la penna surrogata di un’anima da contattare. Osammo così un’esordiente seduta spiritica.
Furono invocati i primi che venivano in mente ma Napoleone, Shakespeare, Matisse e Cleopatra non aspettavano giusto noi per trascorrere una serata diversa. Malgrado le rispettabilissime nomination the winner was un arabo egiziano localizzato in una valle di fuoco, era stato un peccatore.
La risposta fu “NION”, perché tra le tante domande che gli ponemmo la più pesante riguardava l’uccisione di Kennedy e sul piattino mancavano J, K, W, X e Y.
Come pervasi da inaspettata folgorazione la mattina seguente evitammo di parlarne tra di noi e con gli altri. Continuammo la sera ad incontrare l’arabo e in piena notte, come indicato dall’anima dannata, andammo sopra gli scogli adiacenti la spiaggia dei pescatori a cercare di distinguere sul fondale il bianco delle ossa di un giovane soldato tedesco ucciso per amore e non per guerra, durante la liberazione.
Potevano essere degli stracci persi da un carpentiere, una trappola per polpi, per noi erano certamente i resti di Hans Schollander.
Se ci fossimo scolati un’intera bottiglia di Bourbon o di fresca Falanghina avremmo arrecato sicuramente più danni a noi stessi e meno alla cultura della sana informazione.
Cominciammo a cedere alle tentazioni, divulgammo poco, quanto bastava per fare accorrere altri a scrutare il fondale ormai libero dalla probabile lattina di plastica bianca sfondata che ci aveva indotto a confermare un evento già di per se indegno di seguito ma assolutamente attribuibile a componenti visibili o invisibili e comunque da noi immagazzinate certamente nelle giornate precedenti.
Cercai in tutti i modi, con indomabile senso critico, non di distruggere l’impalcatura suggestiva quantunque falsa che avevamo messo in piedi, ma di analizzarne mattone per mattone la genesi e le probabili manipolazioni mentali spontanee di ognuno di noi che avevano condotto a varcare i confini della credibilità.
Le cose, i personaggi e gli interpreti, in ordine di apparizione e invisibilità, furono in qualche modo catalogati, ora dovevo raccogliere le singole tesserine variopinte sparse per valutare i possibili campi di forza che le avevano fatte riunire in quel suggestivo sogno collettivo.
Le cose:
Prima fra tutte il tavolino con la sua instabilità e suggestionabilità aveva veicolato gli impercettibili stimoli di tutti noi.
Il piattino, conteneva le lettere dell’alfabeto italiano, ma nel momento stesso in cui il nostro decoratore ne aveva omesso le lettere ‘inglesi’ doveva avere per un nanosecondo instaurato un microscopico dubbio che si è trascinato fino alla seduta tanto da condizionare domande e risposte.
La biglia, innocuo strumento di vetro variopinto, gnomone di una meridiana approssimativa, pennino di un calamo deforme e balbuziente, terminale di un sistema artigianale, aveva scritto nomi, situazioni ed eventi immaginari, un concepimento collettivo, un’orgia della fantasia.
Le ossa, ma quali ossa, e neanche lattina di plastica o straccio affondato senza il conforto di leggi scientifiche, risultarono essere in realtà frammenti di specchio di qualche superstizioso lanciatore che quella sera rifletteva luna, lampioni e qualcos’altro di bianco.
I personaggi:
Fu difficile dare una giustificazione alla scelta dell’anima dannata contattata. Riuscii comunque a collegare la figura al film che poche sere prima la stessa comitiva aveva visto al cinema Excelsior: Lawrence d’Arabia. Ma di Peter O’Toole era rimasto impresso solo il copricapo. I colori e l’aspetto che tra di noi ci descrivevamo convinti, in effetti erano quelli del bagnino Gigino che quotidianamente ci invitava a non giocare a pallone sulla spiaggia.
Richard Nixon:
Solo perché era antipatico a tutti …
Hans Schollander:
Doveva essere tedesco perché era la lingua più diffusa sull’isola, dopo l’ischitano. Il cognome era facilmente derivabile da quello che spesso leggevamo sui giornali, un campione americano del nostro gioco preferito, il nuoto, dopo il calcio sulla spiaggia. Perché Hans? E’ tuttora un mistero e non è l’unico.
Gli interpreti visibili:
Noi stessi con le nostre microscopiche azioni che sul pianale del tavolino si ripercuotevano inegualmente amplificate fino ai piedi della base.
Gli interpreti invisibili:
Le nostre celluline grigie in libertà di traffico ed in cerca di scorciatoie comode e veloci per raggiungere i vari mignoli.
Ma l’elemento fondamentale era la massa, invisibile sia nella sua rappresentazione che nella sua potenzialità. Quante volte nelle prime lezioni di fisica mi sono sforzato di separare il concetto di massa da quello di peso, difficilissimo. Siamo in un sistema chiuso e condizionato totalmente dalla forza di gravità. Non c’è massa che non sia peso a questo mondo. Se non esistessero la resistenza e la concorrenza di altre forze tutto imploderebbe verso il centro della terra. Se non ci fosse distanza alcuna tra tutti gli atomi del globo, la terra sarebbe grande poco più di una pallina da tennis.
Conosciamo tutte queste forze? In teoria sì, come quelle universali, il problema è che non riusciamo a misurarle tutte, perché pur conoscendo le orbite e quindi la forza risultante immaginiamo di conoscerne la massa ma ci stupiamo poi se dal mutare per qualche evento della loro orbita il risultato atteso è diverso da quello reale, questione di masse.
Le leggi della meccanica hanno sempre la stessa forma nei sistemi di riferimento inerziali (quiete o senza accelerazione). Nessun esperimento può consentire di distinguere un sistema di riferimento da un altro in moto rettilineo uniforme rispetto al primo. Un bimbo che giocherella con una pallina da tennis in mano sul marciapiede della stazione non si distingue da un bimbo sul treno che transita dinanzi a lui a 100 km/h e che gioca nello stesso modo con una pallina uguale. Le leggi della meccanica, dell’elettromagnetismo, i principi di termodinamica, quelli riguardanti la luce nella sua propagazione nel vuoto a velocità costante hanno contribuito a dedurre che le misure di intervalli temporali e le lunghezze spaziali effettuate da osservatori inerziali (fermi o senza accelerazioni) non corrispondono necessariamente tra loro dando luogo a dilatazione del tempo e contrazione delle lunghezze.
La curvatura e la distorsione dello spazio/tempo sono legate alla distribuzione delle masse e dell’energia. L’onda gravitazionale è una deformazione dello spazio/tempo che si propaga come un’onda. Un fronte d’onda può essere l’esplosione di una supernova o la collisione di due oggettivi massivi (come due buchi neri).
Torniamo con i piedi per terra, come quelli del tavolino.
Risultati attesi = risultati sperati + risultati temuti. In politica, nello sport, a scuola, all’università, sul lavoro, nella vita, in prossimità di un evento che ci interessa particolarmente ci si schiera secondo 2 atteggiamenti possibili, a prescindere dalla certezza, che non è mai totale, che la scienza faccia accadere quell’evento proprio come le leggi di causa ed effetto stabiliscono:
un atteggiamento ‘ottimistico’, positivo quantunque dubbioso ‘spera’ che l’evento risulti a nostro favore,
l’altro, ‘pessimistico’, negativo ‘teme’ che accada il contrario.
Bisogna chiarire che questi due diversi modi di porsi non hanno una durata sensibilmente apprezzabile, sono attimi fuggenti. Quando perdurano volontariamente sono comportamenti o di eccessiva presuntuosa sicurezza o esorcizzante scaramanzia. L’attimo fuggente è in pratica quell’infinitesimale sensazione che nasce in noi, che velocissimamente glissa la rete della razionalità centrale e fugge via e può disperdersi nel vuoto o raggiungere altri minuscoli moli d’attracco e proseguire la corsa da solo o in compagnia, spinto, a volte respinto, dalla consistenza della massa d’origine o di destinazione; infine può essere un fenomeno addizionale e di destinazione imprecisata.
Accade dunque che più piccolo è l’istante in cui percepiamo qualcosa di temuto o desiderato, ovvero più alta è la velocità del suo passaggio e più lontano verrà trasferita l’energia di quella massa intrinseca nel pensiero stesso, che è comunque un dato, una informazione viaggiante.
Quello che l’energia posseduta da una massa si estrinseca nell’intorno dipende sì dalla quantità di energia ma anche dalla velocità di trasferimento dell’energia stessa. Più è alta la pressione (o attrazione), più veloce è il trasferimento, più percorribili e rinnovabili sono le scorciatoie.
Premiamo l’estremità di un tubo di gomma per innaffiare e la stessa acqua vola via più lontano e più velocemente.
Un pensiero lampo a mala pena percepito e immediatamente e apparentemente perso per sempre può autonomamente diffondere la sua altissima energia, che è inversamente proporzionale al suo tempo di persistenza nella gabbia dei ragionamenti che accompagnano le attese, cioè speranze e timori.
Il risultato di un singolo stimolo istantaneo o la somma di moltitudini in attesa, può cambiare inconsciamente gli esiti di piccoli eventi o i destini di intere generazioni.
I risultati di fatti politici, sportivi, scientifici, letterari, storici infine, possono essere partecipati, a volte controllati dall’insieme di questi singoli fenomeni.
Quello che conta è la distrazione massima e non la concentrazione per agevolare un’attesa desiderata, a Napoli si dice nun ce pensa’. Aggiungo io, ci pensa lui per te, il fattore stimolo lampo che viaggia sui tavolini a tre piedi di cui e disseminata la nostra quotidianità.
Senza imporre polpastrello alcuno ma semplicemente chiudendo il libro di chimica biologica e osservando ‘fugacemente’ l’ultimo paragrafo, la ‘sintesi proteica extra ribosomiale’, praticamente neanche letto, inconsciamente ma scientificamente avevo concepito la domanda ignobile che sistematicamente mi fecero in coda all’esame, un ventidue meritatamente rifiutato. Qualcosa nata in me rapidamente fuggì per vie misteriose totalmente fuori del mio controllo ma pienamente a disposizione del professore di Biochimica 2. L’istante di timore si era concretizzato in un masochistica certezza negativa. Era stato un minuscolo e balenante pensiero, una molecola quasi impercettibile, la chiamai FLIN (Fast Lightning Information).
Da quel giorno cercai di sperimentare la teoria in altri terreni, meno scoscesi ma necessariamente attendibili. La cosa non era semplice. Essere consapevoli di una data, di un evento, del suo risultato positivo o negativo, sperato o temuto, implicava una riflessione almeno per qualche istante per decidere di distrarmi da esso e quindi ridurne al minimo essenziale la riflessione. Direi che era impossibile.
Provai con il lotto. Non volendo scommettere anche perché trattavasi di sperimentazione, ripiegai per la tombola e scovai tra la ‘roba di Natale’, un ‘panariello’ con i 90 numeri. Lo collocai sulla scrivania e cercai di non pensarci più per uno/due giorni. Quando il terzo giorno mi avvicinai al ‘panariello’ lo feci perché mi serviva un documento che vi era al di sotto, lo scostai, con gestualità spontanea lo rovesciai e quando i cilindretto di legno rosso numerato era quasi nella mia mano, evocai la cifra e la azzeccai in pieno con un tempo di latenza incalcolabile, talmente era breve. L’esperimento era riuscito, il ’flin’ era partito ed anche arrivato, peccato che i tempi non li avevo stabiliti io e quindi per la conferma ero vincolato ad una componente non governata da me: l’istinto. La teoria rimase teoria: più breve è il tempo dedicato ad un pensiero, più grande è la sua velocità di trasferimento perché più alta è la massa e quindi l’energia inerente. Il dato, la molecola informativa, il flin che viaggia, raggiunge mete inesplorate, lungo il percorso si unisce ad altre aventi la stessa probabile destinazione. Dalla loro unione in maniera esponenziale si creano onde, nuove collisioni e magari si perdono nel vuoto, che vuoto non è ma solo percorso più lungo e tortuoso.
Un flin di zia Nina che osservava il tavolino a tre piedi del caffè ha prodotto i suoi risultati a distanza di decine e decine di anni. E quanti ne sono stati generati negli ultimi dieci minuti? Miliardi, ma la loro bontà e quindi il risultato che essi otterranno da qui a venire è solo frutto di serenità e tanta fantasia.