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Ignazio e la farfalla



di Aldo Vetere

2° edizione con illustrazioni di Bruno Agolini


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Quando la parola incontra l’immagine

Sarà capitato anche a Voi di chiudere forte gli occhi e  spiare nel buio delle vostre palpebre alla ricerca delle stelle di luce colore arancio che sembrano trasformarsi da un momento all’altro in farfalle o in un volti di donna o in una pioggia di semi addormentati per poi sparire come  in un buco nero, vasto come il mondo non visto dell’universo irreale, per poi riapparire di nuovo come stelle bianche o azzurre o come  ricci di acqua colorata in un mare nero poi più nero e ancora più nero fino a diventare trasparenti come la polvere di un sogno. Sarà capitato anche a Voi  di riaprire gli occhi e desiderare di  disegnare ciò che avete visto. E’ quello che ha fatto Bruno Agolini con Ignazio e la farfalla. Quando ho incontrato casualmente Bruno Agolini e gli ho chiesto se aveva voglia di fare delle illustrazioni per mio conto sapevo bene che gli stavo per affidare un compito impegnativo ma avevo visto le sue opere recenti messe in mostra a Villa Pignatelli ed avevo intuito che nessuno più di lui avrebbe saputo disegnare il mondo visionario di Ignazio con la sua casa di polvere di sogno affacciata sul giardino dei cocomeri azzurri.  Non è stato necessario spiegargli che cosa doveva disegnare. Lo sapeva già.



 

 

IGNAZIO E LA FARFALLA
aldo vetere

 

 



 

 

 

Se tu guardi il movimento dell’acqua non aspettare che spunti la luna. Indossa il tuo vecchio costume da marinaio e voga. Domani qualcun altro dormirà nella stanza dove tu hai passato la notte. (a.v.)
A te che sogni

 

 

 

                                                  


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Quando Ignazio Vetere capì che nel mondo dei sogni impossibili avrebbe potuto finalmente agire di testa sua senza condizionamenti esterni e che nessuno l’avrebbe mai giudicato per il suo operato per quanto disdicevole potesse apparire, prese la decisione di sposare una farfalla. Scelse un abito elegante adatto ad una cerimonia di sposalizio di un bel colore zucca pallido, ci abbinò una camicia di seta bianca liscia come un foglio A4, una cravatta rosa fragola con al centro uno spillino d’oro e dopo avere calzato un paio di scarpe abbottonate ai lati con due strass lucenti come gli occhi di un coccodrillo in vacanza nella laguna veneta, si sentì felice come non mai in vita sua. L’idea di impalmare una creatura così leggera gli era venuta in mente guardando alla televisione un reportage sui cercatori di svarioni che notoriamente sono assillati dalla frenesia di scavare nella polvere di vecchi libri tra le violette appassite e i segni di matita blu. Se non avesse visto quel noioso reportage, la sua scelta sarebbe potuta cadere più semplicemente sulla dattilografa dell’ufficio dell’Avvocato Sbordone che gli aveva più volte fatto intendere che avrebbe gradito un’attenzione da parte sua, ma si sa che la vita non sempre ci conduce a comportamenti cosiddetti dirimpettai rispetto ai nostri stati d’animo e così era sfumato il matrimonio con Annalimone che era il nomignolo della suddetta perché il vero nome era Pastiera per una voglia di fiori di garofano che portava con sé sin dalla nascita sulle tonsille a causa di un peccato di gola di sua madre Pasqualina. Quando aveva cominciato a far sapere in giro che era sua intenzione maritarsi con quella virgola bianco latte che ogni giorno si posava sulla molletta dei panni del balcone dell’Amministratore del condominio e gli sorrideva con uno sguardo languido da gelato all’albicocca, lo presero per pazzo e per molto tempo non gli rivolsero più la parola né lo sguardo e persino la bandiera che sventolava da sempre sul pennone della caserma dei pompieri a due passi da casa sua smise di gonfiarsi di vento di scirocco e si arrotolò su se stessa come un grande bastoncino di zucchero filato con problemi di diabete. Ciò che infastidiva di più la gente comune di quell’originale idea di matrimonio era che Ignazio la voleva far passare per amore come se fosse realistico pensare che una farfalla giovane si potesse innamorare di un giovane uomo come Ignazio Vetere che non era mai andato a caccia di lepidottere e che mai e poi mai aveva mostrato interesse per quell’ambiente così esclusivo e volubile. Qualcuno accennò al fatto che Ignazio se l’era cercata per  via della sua spiccata curiosità che aveva mostrato fin da bambino quando con la maschera da sub si immergeva nella vasca delle paparelle della Villa Comunale per cercare tra le quattro stagioni  una via d’acqua verso il mare che poi era lì a due passi e non c’era bisogno che si munisse di tutto quell’armamentario. E sì perché non si preoccupava di indossare solo maschera e boccaglio ma si dotava anche di brache da sommozzatore e di una scorta di palline di vetro colorato se mai si fosse presentata l’occasione di fare uno scambio con un pesce palla di passaggio diretto come lui verso lo scoglio di pietra salata. Si diceva anche che fosse un abile nuotatore e che con poche bracciate e sgambate riuscisse a raggiungere la secca degli scarfogli dove si intratteneva per il pranzo ovviamente scrupolosamente vegetariano. Qualche volta, ma era raro, si fermava a dormire in un anfratto dello scoglione a circa trenta metri di profondità e ripartiva solo al primo canto del pesce gallo. Se aveva voglia, cosa che non sempre accadeva, toccava la parete sotto villa Lysis alle prime lucciole del nuovo giorno e subito dopo arrivava in vista del porto. Ma erano più le volte che proseguiva verso l’Africa che quelle in cui si limitava a fare il giro dell’isola della bella addormentata e se ne ritornava a Napoli nella sua casa di polvere di sogno dove viveva da quando era venuto al mondo circondato da una moltitudine di pensieri avvolti in carta argentata o sospesi nell’aria.

Sì, perché la casa che Ignazio aveva ereditato nel mondo dei sogni impossibili  dal bisnonno Felice e dalla bisnonna Sconsolata era una casa per modo di dire, primo perché era su di un pizzo di montagna con una vista stupenda sul golfo di Napoli tanto che si vedevano perfino i ricci di mare rossi e blu  che inseguivano le ricciole verso Capri, secondo perché non era abbastanza silenziosa almeno non tanto quanto avrebbe voluto Ignazio che odiava il rumore in particolare il suono delle briciole di pane che cadevano dal tavolaccio sul pavimento dove Spavaldo le raccoglieva con la sua lunga coda di pelo di carota. In quella casa dove erano nati i suoi avi Ignazio aveva sistemato tutti i suoi ricordi in grandi scatoloni numerati a seconda dell’epoca e del genere. Non era stato facile perché si sa che i ricordi sono ingannevoli, spesso si sovrappongono o fuggono via per ritornare semmai dopo molto tempo e in parte diversi ma Ignazio ci aveva messo tutto l’impegno ed era riuscito in qualche caso ad associarli a dei momenti precisi della sua gioventù e persino a dei personaggi o a delle cose o a dei particolari. Così se voleva recuperare un ricordo della sua prima infanzia, come ad esempio di quando era venuto al mondo, allora andava a prendere lo scatolone contrassegnato con il numero 13 che era il suo preferito e quello che avrebbe affiancato i momenti più delicati della sua vita. Il 13 perché sua nonna era nata nel 13 e lui si era affezionato a quel numero tanto che tutti gli altri li considerava numeri secondari. Per la verità non che avesse una memoria di ferro o da elefante, anzi era più quello che dimenticava che quello che ricordava. In questo campo era imbattibile. Se qualcuno gli chiedeva di ricordare una dimenticanza lui partiva in quarta ed era capace di starsene in silenzio per ore ed ore dimenticando tutto quello che aveva fatto quel giorno ed anche il giorno prima. Una volta aveva dimenticato l’anno appena trascorso sicché, se pure aveva festeggiato il compleanno con tanto di torta e candeline di zucchero filato, il 31 dicembre si ostinò per tutta la giornata a negare i 365 giorni che pure aveva vissuto come tutti gli altri mortali. Ma si sa che Ignazio Vetere era un tipo speciale e chi decideva di essergli amico era ben conscio della responsabilità che si addossava e delle fatiche che avrebbe dovuto fare per riuscire a comunicare con un essere che il più delle volte era assente da se stesso come se avesse lasciato i vestiti a fargli da testimone e lui fosse fuggito via per chissà quali vie misteriose. Allora bisognava aspettare che tornasse nella vita reale il che poteva voler dire aspettare per ore e ore fino a quando come per miracolo un soffio d’aria lo riportava dove aveva lasciato i suoi indumenti che riprendevano forme e sembianze umane. Se non aveva già dimenticato quello che aveva vissuto allora sì che valeva la pena stare ad ascoltarlo. Era in grado di raccontare esperienze straordinarie e, a richiesta, era capace di farlo in sette diverse lingue perché Ignazio non solo era poliglotta per parte di madre ma anche custode di molte lingue morte che aveva riesumato con l’aiuto di un vecchio zio impiegato all’ufficio oggetti smarriti del Comune. C’era chi non credeva a queste sue qualità e persino chi considerava Ignazio Vetere un bluff neanche troppo divertente. Così c’era chi lo amava, chi lo tollerava appena e chi lo compativa. I primi erano affascinati dalla sua personalità trasognante e sarebbero stati per ore in sua compagnia solo per catturare il momento della lievitazione dei suoi pensieri o quello della semina delle emozioni che Ignazio senza volerlo scartocciava dalla sua anima di sognatore; gli altri ironizzavano sulle sue qualità magiche e sostenevano di non sentire gli sbuffi delle anime dei trapassati remoti che, giocherellando agli angoli dei soffitti, lasciavano trapelare una dolce musica bianca come una mousse di accordi di violoncelli che rallegravano il vuoto di parole e inducevano al sonno. Ma Ignazio non si preoccupava delle maldicenze dei suoi vicini di casa né soffriva delle vere e proprie calunnie che i suoi conterranei lasciavano scivolare davanti ai suoi mocassini quando lo vedevano per strada con gli occhi socchiusi perché diceva che solo così si riusciva ad immagazzinare il colore della vita. Era giovane ma nessuno sapeva con precisione  quanti anni avesse né qualcuno osava chiederglielo perché in verità non era affatto facile attaccare discorso con lui. Chi ci aveva provato aveva giurato che mai e poi mai gli avrebbe più rivolto la parola e non aveva torto perché Ignazio era imprevedibile nella risposta se e quando decideva di darla. Il più delle volte guardava il suo interlocutore con l’aria di chi era stato interrotto nel bel mezzo della composizione di un canto o proprio mentre stava schiaffeggiando la tela con l’ultima pennellata di non colore. E in effetti Ignazio spesso camminava sulle nuvole, nuvole basse ma pur sempre a qualche centimetro da terra sicché non era nemmeno facile per un passante accantonare lo stupore della originalità e al tempo stesso formulare una domanda. Ma poi che domanda? Cosa si può domandare ad un uomo che ti guarda con gli occhi socchiusi a qualche centimetro da terra mentre gioca con il ricamo del vento? Che cosa è l’amore? Si, poteva essere questa la domanda ma quale risposta ci si sarebbe potuto aspettare da lui. Di sicuro Ignazio si sarebbe perso in una miriade di luoghi comuni trovando la domanda  tendenziosa oltre che banale. Sarebbe stato come chiedere ad un gomitolo di lana di svelare l’origine della matassa all’altro capo del suo mondo. Ignazio sapeva che la materia vive di suo come una pianta di gorgonzola ma non lo sapeva spiegare. Una volta si era incaponito di verificare quale sofferenza provava  uno sfilatino di pane marsigliese nel momento in cui la lama del coltello scavava nella sua pelle alla ricerca della soffice mollica. Che provasse un dolore questo lo dava per certo e il fatto che  non mostrasse disagio né desse segno di soffrire il colpo della lama non aveva nessun significato. Che il pane patisse il dolore  lo aveva scoperto poco tempo addietro scavando con le dita uno spicchio di mollica per adagiarvi alcune foglie di trifoglio rosso. Il pane si era contratto e lui aveva sentito un gemito sottile come il fischio del vento. Si era fermato e il pane gli aveva sorriso o almeno lui aveva interpretato così la leggera contrazione della mollica che rimessa al suo posto si stava riposizionando nell’alveo bianco della farina. Ne soffrì molto allo stesso modo di quando vide sanguinare nella padella il cuore tenero di un carciofo. Ignazio non sopportava il dolore della carne. Quello dell’anima era affare ben diverso. L’anima non sanguina per un catetere, non si contorce per uno spasmo o un taglio o un livido. Il dolore dell’anima è un dolore che si ripara con le carezze e le preghiere e se queste non sono sufficienti si argina con l’amore ma quello del corpo no, quello è un dolore subdolo che si nasconde nelle pieghe della carne o si mimetizza nei muscoli e nei tendini o si adagia sotto pelle. E’ impossibile resistergli e il più delle volte ti conduce a desiderare la morte. Ignazio aveva un’idea della morte del tutto personale. Non la considerava una inevitabile conclusione della vita come la maggior parte degli esseri umani bensì un punto di partenza.



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Avrebbe preso una nave e sarebbe partito per un lungo viaggio per mare costeggiando le isole della Buona Accoglienza dove di tanto in tanto il bastimento avrebbe fatto scalo per far scendere qualche persona e farne salire qualche altra. Ma la cosa strana è che non si cantava sulla nave. Non c’erano i suoni a cui era abituato ma solo una musica sottile come il sospiro dell’abete quando raccoglie le prime lacrime di pioggia e ringrazia le nuvole. Fu la stessa sensazione che ebbe il primo giorno di primavera quando si alzò e si affacciò alla finestra per vedere di che pasta fosse fatto il mondo rimanendone deluso. C’erano gigli dorati e alberi incantevoli che si preparavano per la festa della lavanda in fiore e  lei vestita di primavera con una corolla di spicchi di mandarino cantava un motivetto dolce che lentamente come un ruscello d’acqua annunciava l’arrivo della prima pioggia. C’era da sperare di vedere la vita prendere forma  ma improvvisamente il sole si abbassò fino all’orlo del cratere e si inabissò. Venne la notte e il buio stese sul mare un drappo nero e una rosa e la terra si scosse così forte che persino le stelle color anice che popolavano i sogni dei pipistrelli si girarono di spalle e mostrarono il loro volto senza luce. Ignazio ebbe voglia di piangere perché il suo sogno di sposare una farfalla si stava allontanando. Lui che aveva voglia di vivere la sua vita a poco a poco si stava rendendo conto che l’aveva già vissuta e  che il tempo che gli era stato dato era per lui finito. Ignazio sapeva bene che il tempo non concede distrazioni e che è limitato. Sapeva che deve accontentare il riciclo della natura e che deve essere perciò centellinato di modo che ciascuno abbia la sua parte né più né meno. Forse avrebbe potuto chiedere qualche giorno in più in virtù del fatto che qualcuno più sfortunato aveva vissuto qualche giorno in meno del suo tempo. Ma se c’era una nascita imprevista? Bisognava garantirgli il suo tempo. E se il tempo della vita era già esaurito allora altro che concedere dilazioni. Occorreva togliere a qualcuno una parte del suo tempo. Il tempo quello è. Non si può dilatare. Certo si potrebbe adottare qualche correzione ma non era semplice farlo capire agli esseri viventi, soprattutto agli umani che di tempo ne consumano una enormità e vorrebbero averne sempre più a loro disposizione. Ignazio guardò la giovane foglia che dondolava da un ramo della grande quercia del giardino dei suoi pensieri e le sorrise. Lei ricambiò la gentilezza curvando verso di lui la punta arrotondata e gli offrì una ghianda verde smeraldo. In men che non si dica divennero amici per la pelle. Da quel giorno in poi non appena aveva un pensiero libero Ignazio si accovacciava sotto il grande tronco e premeva le sue spalle contro la bruna corteccia di sughero. A quel contatto un soffio caldo come l’abbraccio di un padre gli saliva su per la schiena e lui istintivamente chiudeva gli occhi fino ad addormentarsi sotto la protezione di quella grande chioma arruffata di fiori gialli e verdi. Forse la quercia era lì da almeno cento anni seppure ancora giovane. Eppure in principio era una ghianda con un destino già segnato sempre che le circostanze avverse avessero risparmiato la sua vocazione.
“Come posso chiamarti, disse la quercia?”
“Io sono un seme come te” rispose Ignazio “Anch’io ho bisogno della terra, dell’acqua e della luce. Ero un germoglio come te anche se con un destino diverso”.
“Ma perché vuoi sposare una farfalla? disse la quercia. Qui nel bosco dei tuoi pensieri non si parla d’altro. Non è il tuo mondo. Non avete nulla in comune. Sarebbe come maritare una foglia del mio albero. Anche i pensieri più strampalati devono avere un senso, magari strampalato anch’esso ma lo devono avere. Tu sei della specie umana. Te ne sei dimenticato?”
Ignazio sorrise con gli occhi come solo lui sapeva fare e mano a mano che le sue pupille diventavano chiare come l’acqua di una sorgente, allargò le braccia e lentamente le lasciò oscillare nell’aria come  fossero le ali di un aquilone. Si alzò sulle punte dei piedi e spiccò il volo sul ramo più alto della quercia poi  con la leggerezza di una piuma si lasciò ricadere sul lenzuolo di ghiande che copriva le radici del grande albero.
“Vuoi provare?” disse Ignazio ad una foglia che sembrava guardarlo stupita.
“Non posso” rispose la foglia “se mi stacco dal ramo muoio e poi non ho interesse a volare. Il mio scopo è catturare la luce del sole fino ad autunno inoltrato per darti l’aria per respirare. Non ho né i tuoi pensieri né i tuoi sogni.”
Ed era proprio vero. Ignazio capì il messaggio della foglia. Era un messaggio di umiltà e di realismo che rispondeva anche alle leggi della natura che qualcuno chissà quando e chissà dove aveva emanato per un suo personalissimo scopo. Ma lui no. Lui, Ignazio, aveva ben altre possibilità rispetto a quelle di una foglia e maggiore potere di quello che poteva avere una quercia e più di quanto potesse detenere un intero bosco con tutte le sue specie di alberi, foglie, rami, frutti, radici, fronde e cortecce.
Accarezzò la foglia dolcemente sulle guance e avvertì un sibilo lungo e leggero  come il suono di un violino poi prese a correre saltellando verso casa con il cuore gonfio di contentezza. Non appena lo vide arrivare da lontano, Spavaldo gli corse incontro scodinzolando di felicità e quando furono uno vicino all’altro si ritrovarono abbracciati alla luce della luna di primavera.
Il mattino successivo dell’anno appena trascorso Ignazio decise che era venuto il momento di fare chiarezza sulla sua venuta al mondo. Se doveva lasciarlo come sembrava oramai certo, almeno dalla lettura dei giornali, che almeno gli dicessero perché ci era venuto e perché se ne doveva ritornare da dove era partito. Ma a chi chiederlo? Pensò che forse la sua promessa sposa avrebbe potuto saperne qualcosa  perché in fondo le farfalle vivono in solitudine nascoste nella loro prigione di seta fino alla prova finale che è quella di trovare la forza di  salire in cielo.  Pensò che lei avrebbe potuto raccontargli del perché di quel lungo viaggio di preparazione alla vita così pericoloso e magico allo stesso tempo. Ma i suoi occhioni di zucchero gli risposero che lei non  sapeva  del perché di quella lunga metamorfosi ma si ricordava bene della sua vita da bruco, delle difficoltà che aveva dovuto incontrare, passetto dopo passetto per trasformare il suo corpo. Però ora che c’era, ora che aveva potuto asciugare al sole le sue ali colorate e stenderle nell’aria fresca di un mattino di primavera, ebbene ora era felice.
Ed era felice perché era viva. Tutto il resto l’aveva dimenticato durante il viaggio. Ignazio ebbe la conferma che aveva scelto giusto a desiderarla per moglie ma capì che sarebbe stato inutile insistere a interrogarla su cose che non poteva sapere. Ma chi poteva sapere? Forse non lo avrebbe mai scoperto per il semplice fatto che  si ostinava a camminare sopra nuvole basse mentre molto probabilmente la risposta alle sue domanda si trovava in alto fra i riccioli della chioma di Berenice o ancora più su nella materia che non c’è. Forse avrebbe potuto con uno sforzo di immaginazione tentare un salto verticale fino ai confini dell’ambizione ma abbandonò l’idea quando Spavaldo gli fece segno di tornare con i piedi per terra anche perché  a quell’ora era facile perdersi fra le stelle.

 

 

Inutile dire che Spavaldo era più di un cane di compagnia e più di un parente stretto. Di taglia media, con un pelo arruffato come un cespuglio di biancospino e grandi occhi  verdi come due olive di Cisternino, aveva assunto nel tempo il ruolo non solo di guardia del corpo di Ignazio ma anche quello di suo consigliere e non era raro che intervenisse nel bel mezzo di una discussione quando vedeva che il suo padrone stava perdendo le staffe il che accadeva non di rado.


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Sì, perché Ignazio non era un uomo facile da trattare in virtù di un carattere particolare che lo portava a difendere i deboli contro i prepotenti. Un atteggiamento in controtendenza rispetto al normale comportamento dei suoi simili.
Spavaldo era poliglotta non meno del suo padrone. All’occorrenza miagolava come un gatto, barriva come un elefante e nelle situazioni più delicate sapeva persino ruggire come una tigre o se era il caso gorgheggiare come un usignolo e sbuffare come una foca. Insomma un cane a tutto tondo che aveva il senso del ruolo per cui diversamente dagli uomini che sono infelici perché non conoscono il compito che è stato loro assegnato, lui si svegliava ogni mattina innamorato della vita e del suo padrone che poi erano la stessa cosa.
Già nella culla Ignazio aveva mostrato l’originalità del suo carattere. Invece di frignare come tutti i pargoletti suoi coetanei se ne stava per ore a scavare nel vuoto della sua stanza con i suoi occhietti vivaci. E lì aveva imparato che il vuoto è pieno di storie affascinanti e che bastava un semplice sforzo di fantasia per prendervi parte.
Aveva intuito che non era necessario addormentarsi per sognare ma che lo si poteva fare anche stando svegli purché  con il giusto stato d’animo. All’inizio sua madre pensò che il suo bambino fosse affetto da mutismo perché, pur sollecitato in mille modi, non emetteva parola alcuna. Solo quando DromeDario, un vecchio zio per parte di padre, lo prese a cavalluccio sulla sua gobba e lo portò saltellando nel giardino dei cocomeri azzurri, il piccolo Ignazio manifestò tutta la sua contentezza con parole all’apparenza incomprensibili ma pur sempre parole che tranquillizzarono sua madre Astuzia. Solo in un secondo momento, a tre anni dalla nascita, i genitori si convinsero che il loro piccolo Ignazio era diverso dai bambini della sua età. Fu quando suo padre Disinvolto gli mise davanti una matita e un foglio di carta bianca  e gli chiese se poteva disegnargli quello che stava fissando da più di un’ora buona in direzione del sole. E Ignazio disegnò la formula dell’Amore di Dirac.
Con il passare del tempo Astuzia e Disinvolto non fecero più caso alle stranezze di Ignazio. Astuzia si raccomandò a San Giuda Taddeo patrono delle cause perse ed a Santa Rita avvocata dei casi disperati mentre Disinvolto se la cavò con una fornitura di trecce d’aglio e peperoncino  che andò ad appendere dietro tutte le porte di casa per combattere il malocchio che a suo dire aveva preso di mira la sua povera casa. Ignazio non ne soffrì anche perché era più il tempo che passava fuori di casa che tra le mura domestiche. E che Napoli fosse una città magica, lo capì il giorno in cui fece per la prima volta la sua conoscenza.  Accadde una sera d’estate in una piega del litorale tra Santa Maria della  Catena e il mare. Mentre era intento a catturare l’odore incantato della notte che stava stendendo il suo nero ricamo sul golfo, avvertì il suono della sua voce. Era un respiro più che un suono. Un respiro d’acqua dolce nel mare salato. Si sporse da uno dei bastioni della terrazza del pittore della vecchia rocca di tufo giallo e la vide. Era una giovane ragazza poco più che ventenne all’apparenza, alta e snella. L’ovale del viso era perfetto e la bocca leggermente dischiusa da un sorriso appena appena tratteggiato  dalla punta di una matita colorata. I capelli neri corti e ricci le conferivano un’aria sbarazzina ma nonostante ciò e malgrado fosse a piedi nudi sullo scoglio aveva un portamento regale come quello di una principessa d’altri tempi. Fu lei a rivolgergli per prima la parola.
“Sei Ignazio, vero?”
“Si, rispose lui, e tu sei…?”
“Quando avevo l’età che ora dimostro mi chiamavano Partenope, la bella sirena dal dolce canto.   
Una antichissima leggenda vuole che io sia approdata qui mille e mille anni orsono proprio dove il mare lambisce il riflesso della luna”.



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Le spuntò una lacrima che non sfuggì all’attenzione di Ignazio il quale per quanto scosso da quella magica apparizione ebbe il coraggio di calarsi sullo scoglione con un balzo e quando le fu dinnanzi le disse:
“Se questa è la città che tu hai fondato e che ami e proteggi, allora dimmi perché  quella lacrima?”
“Perché quello che allora era un villaggio di gente felice dove si celebravano feste in mio onore, in uno scenario che ancora oggi  seduce per la sua lussureggiante bellezza e  calma ogni dolore dell’anima, ebbene questo stesso luogo che fu in principio insediamento greco tra i banchi di corallo di questo isolotto e le pendici del colle che hai alle tue spalle, non è più gaio e spensierato come una volta. Cosa è accaduto in tutto questo tempo? Tu lo hai vissuto  e dovresti saperlo.”
“Io non so niente, Principessa. Perché hai scelto me? E poi sto per sposarmi, non ho tempo di raccontarti il bello e il brutto della tua città e se prevalga l’uno o l’altro. Posso solo dirti che un tempo Napoli era un sentimento, era cuore, anima, impulso, passione. Perché è la mancanza di questo che tu oggi lamenti, vero?”
“Come tu sai qui c’è il mio sepolcro e tutt’intorno era un giardino di delizie. La mia città era chiamata la Dotta Partenope ed era dolce persino venire a morire in questo luogo. Era da tempo che non tornavo a casa. C’è qualcosa che mi imbarazza. Mi sento disorientata.  Forse sono  tutti quei pesci luminescenti che sembrano addormentati in superfice. Tu come mi vedi?”
“Ti vedo bellissima ma ti devo guardare da lontano. Se mi avvicino i tuoi occhi cambiano colore e vedo ancora quella lacrima sul tuo viso. La tua città ha cambiato colore come i tuoi occhi. E quei banchi ondulanti a fior d’acqua  che brillano di luce azzurra non sono le ricciole della tua infanzia ma il frutto dell’ignoranza e della cecità dei miei concittadini che versano in  mare il loro dispetto per il mondo.”
Il giorno dopo Ignazio abbandonò il sogno che l’aveva portato nella più antica colonia di Cuma e scortato da Spavaldo si incamminò verso nord lungo la strada delle grandi illusioni. Non era la prima volta che faceva quel percorso. Aveva tentato in  altre occasioni ma a parte l’ultima volta allorché uno sbuffo d’aria calda si era raggomitolato su sé stesso ed aveva disegnato un fiore, tutti gli altri tentativi erano miseramente falliti e se ne era sempre dovuto tornare a casa sconfitto. Ma quel fiore inaspettato rosso come l’amore ardente l’aveva convinto a ritentare e così quel giorno si era nuovamente avventurato dentro il giardino delle illusioni e si era messo a cercarla.
“Vedrai Spavaldo che questa volta la troveremo. Sento che è qui, vicina a noi. Tu che hai il fiuto di cento segugi dovresti avvertire il suo odore di mistero, dovresti…” improvvisamente si fermò.
Gli era apparso di fronte un albero di melograno dai rami argentati e una chioma ricca di fiori d’arancio. Una quantità di bacche rosse riposava sulle radici e tutt’intorno al tronco giaceva una pioggia di semi addormentati. Solo una melagrana era stata risparmiata dal vento e ciondolava nell’aria a stento trattenuta da un sottile picciolo verde. Era lei l’Illusione superstite che se non colta subito rischiava di cadere sul tappeto delle speranze perdute? Era la sua? Spavaldo drizzò le orecchie e piegò in avanti la zampa destra per essere pronto a qualsiasi evenienza ma Ignazio lo tranquillizzò con un sorriso. Avanzò lentamente e quando fu dinanzi al tronco grigio-perla si alzò sulle punte dei piedi e con la lentezza e il garbo che si addicono ai momenti solenni allungò il braccio e colse la sua Illusione. Spavaldo fece una piroetta su sé stesso in segno di soddisfazione poi si accucciò con il muso tra le zampe e guaì a un tartufo appena nato. Ignazio cullò la melagrana fra le mani come un padre avrebbe fatto con il figlio appena nato poi lentamente incise con il coltellino che portava sempre con sé  la corteccia del frutto con tagli leggeri sia in orizzontale che in verticale e infine con estrema delicatezza fece leva con i pollici sull’incisione mediana e la melagrana dalle mille virtù si aprì a forma di stella. A quel punto Ignazio la lanciò verso le nuvole bianche con tutta la sua energia e mentre la melagrana a forma di stella saliva verso il cielo, tutti i semi stivati nella sua alcova esplosero nell’universo come i coriandoli di un fuoco pirotecnico e tutta la volta si andò popolando di migliaia e migliaia di corpi celesti mentre il dolce suono di un’arpa faceva da sottofondo alla nascita dell’Universo. Ignazio ne fu talmente soddisfatto che cominciò a saltellare di gioia e si fermò solo quando Spavaldo si sdraiò a pancia all’aria con il capo reclinato, la lingua penzoloni e un occhio chiuso e un occhio aperto come se fosse morto. Fu tale lo spavento  che Ignazio dimenticò tutto un tratto la sua illusione e si precipitò  per rianimare il suo compagno di avventure. 


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Non fu necessario perché Spavaldo si rizzò sulle zampe e con un balzo degno del suo padrone  si tuffò nelle sue braccia. Mentre il giardino delle Illusioni svaniva con il suo albero della vita, il creatore del mondo ed il suo fedele accompagnatore ripresero la strada verso casa sotto una pioggia scoppiettante di bengala, segno che  Napoli era in festa. Nel mondo dei sogni impossibili i preparativi per il matrimonio proseguivano a rilento anche perché gli intoppi aumentavano giorno dopo giorno. Innanzitutto il Sindaco non ne voleva sapere di officiare quel matrimonio. A sua difesa andava dicendo in giro che se avesse celebrato le nozze tra Ignazio ed una farfalla, non avrebbe potuto dire di no all’unione di  altre coppie che avessero deciso di convolare a nozze. Il suo sarebbe stato un precedente pericoloso visto il garantismo imperante in città e le strane voci che gli erano venute all’orecchio circa alcune regolarizzazioni che stavano lì lì per essere presentate in Comune. Addirittura, ma non era ancora ufficiale, si mormorava che il parroco del rione Santità, dopo avere abbandonato la tonaca per questioni di cuore, avesse espresso l’intenzione  di sposare in pompa magna la foca monaca della quale pare si era ardentemente innamorato durante un pellegrinaggio in Sardegna. In seconda battuta erano sorti non pochi intralci circa gli invitati che Ignazio avrebbe limitato ad Astuzia e Disinvolto, ai consuoceri Icaro e Galatea ed agli amici fidati di vecchia data mentre i suoi genitori avrebbero voluto estendere l’invito a tutti i parenti compreso lo zio DromeDario e sua moglie Cammella. Insomma una serie di impicci che rischiavano di ritardare il matrimonio e conseguentemente mandare a monte le nozze data la caducità della vita di una farfalla e Piena di Grazia , questo il nome della promessa sposa, aveva già tre giorni di vita sulle sue fragili spalle. Ignazio calcolò che il tempo si stava esaurendo e che se non fosse riuscito a recuperare almeno un paio d’anni passati si sarebbe trovato in difficoltà .Ma come avrebbe potuto fare? Si sforzò in mille modi ma per quanto frugasse nella sua caleidoscopica mente non trovò una soluzione applicabile al suo caso. La prima cosa che gli venne in mente fu la banale contraffazione dei suoi documenti. Ma con quale risultato? Il suo tempo sarebbe scaduto all’inevitabile secondo programmato dal suo Destino anche se all’anagrafe avrebbero registrato la sua morte con due anni di meno. Inutile pensare ad una colletta fra tutti i suoi parenti ed amici. A parte Spavaldo nessuno gli avrebbe concesso una settimana del suo tempo per farlo vivere due anni più a lungo. E allora? Pensò con nostalgia a tutti i minuti che aveva lasciato andare con sciatteria mentre se li avesse spesi con criterio, centellinando la vita a piccoli sorsi avrebbe avuto il tempo di sistemare in anticipo tutte le cose. Aveva perso minuti preziosi e forse anche secondi preziosi e calcolandoli tutti insieme aveva sprecato tanto di quel tempo che  gli faceva rabbia solo a pensarci.

 



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Per non parlare del tempo che aveva perduto per cause di forza maggiore o indipendenti dalla sua volontà. Almeno quello avrebbe potuto scalarlo e recuperarlo. No, si disse. Neanche quello, nemmeno le lunghe attese alla fermata del tram o le lunghe e noiose visite a casa dello zio DromeDario durante le feste comandate e non solo.
Ma anche se fosse riuscito a  differenziare le ore perse per causa sua da quelle trascorse per colpa di altri, insomma le volontarie dalle involontarie, a chi avrebbe dovuto presentare il conto e chiedere l’ eventuale autorizzazione a recuperarne  una parte? Senza alcun dubbio il referente era il Destino, il burattinaio che tiene ben saldo il filo della nostra vita e ci conduce con un guinzaglio invisibile ora a sinistra ora a destra  mentre noi, intelligentoni come siamo, continuiamo a tenere la testa all’insù ed a cantare: “Miserere Deus secùndum magnam misericòrdiam tuam”.Ignazio lo aveva capito. Dopo tutto quel ragionamento tortuoso era arrivato ad una conclusione condivisibile. Ciascuno ha il suo Destino, ti adotta dalla nascita e ti accompagna passo dopo passo fino al giorno in cui ti lascia andare perché non ha più bisogno di te. E tu? Se non te ne vuoi andare? Se fai resistenza perché hai lasciato in sospeso la tua ultima carezza? Niente da fare.
Devi accettare la tua inevitabile sorte e lasciarti cadere nel vuoto come una foglia d’autunno. Spavaldo smise di  rosicchiare il suo osso vegano al profumo di bosco e come faceva tutte le volte che vedeva il suo padrone  troppo concentrato nei suoi pensieri, si stese carponi sul pavimento con il muso in direzione della porta e aspettò che Ignazio, captato il segnale, lo conducesse fuori per la passeggiata serale.
C’erano stelle dappertutto e l’aria era densa di sensualità. In lontananza Napoli era sfavillante di luci ma l’attrazione che Ignazio provò non fu tanto  per la sua città che faceva la ruota ai turisti a due passi dal mare quanto per lo spazio  che gli si apriva davanti. Desiderò di tuffarvisi dentro e di volare libero e spensierato. E poiché si trovavano nel campo dei broccoletti della Certosa di San Martino, uno dei punti più alti della città, Spavaldo, preoccupato che Ignazio si lasciasse portare dalla brezza di primavera prima ancora di entrare nel mondo dei sogni impossibili, con un saltello gli si accucciò tra le gambe impedendogli ogni movimento.
Ignazio lo guardò con gli occhi lucidi di affetto. “Hai avuto paura mio fedele amico?” Spavaldo rispose di si nascondendo la coda tra le zampe. “Eppure un giorno accadrà che dovremo separarci. Tu questo lo sai vero? Una goccia di umidità simile ad una lacrimuccia spuntò sotto l’occhio sinistro di Spavaldo. Ignazio gli si inginocchiò accanto e gli accarezzò dolcemente il collo poi rimasero entrambi nel silenzio dell’orto dei certosini a guardare Zefiro che soffiava leggero da ponente. Rientrarono alle prime luci dell’alba mentre già  cominciava nel cielo la ola dei rondoni.  Disinvolto quella mattina era intento a lucidare il tavolo di noce della cucina con uno straccio di cotone ben inzuppato di un liquido oleoso color rubino come il cognac.
Canticchiava un motivetto dei tempi andati e il movimento del gomito che spandeva l’olio seguiva il ritmo della canzone. Astuzia era seduta vicino alla finestra aperta sul giardino dell’insalata, intenta a sbucciare una quantità industriale di fave fresche che facevano capolino da un paniere che si era sistemata in grembo. Sembrava serena per quanto tutti sapevano che era preoccupata e non poco per le stranezze di quel figlio unico che invece di godersi la vita come tutti i ragazzi della sua età preferiva entrare ed uscire dai sogni.
E poiché sapeva che le illusioni non fanno punteggio perché prima o poi spariscono nel nulla come i miraggi, era costantemente in pena per il suo futuro. Peraltro Ignazio non faceva nulla per tranquillizzarla. Anzi il più delle volte affondava il coltello nella piaga con propositi allucinanti come quello di voler sposare una farfalla piuttosto che rassicurarla con progetti di normale vita quotidiana.
E così quando, entrando in cucina,  Ignazio sentenziò che gli oggetti durano molto di più dei soggetti che li hanno costruiti o che li hanno in custodia ragion per cui quel tavolo che suo padre stava lucidando sarebbe vissuto molto più a lungo di lui,  Astuzia alzò gli occhi al cielo e si raccomandò a Santo Espedito titolare dei casi urgenti e senza rimedio.
Disinvolto che lo era di nome e di fatto non fece una piega per nulla sorpreso da quella frase enigmatica e si limitò ad osservare che quella era una delle sue astruse riflessioni senza né capo né coda e che, in ogni caso, non avrebbe scambiato la sua vita con quella del suo tavolo di noce per nulla al mondo. Poi continuò il suo lavoro di lucidatura. Spavaldo che stava seguendo attentamente la discussione annuì con tre colpi di coda sul pavimento, segno che nemmeno lui avrebbe permutato la sua breve vita con quella del tavolo della cucina. Quando Astuzia si ammalò e morì nel mondo delle realtà incontrovertibili, Disinvolto si  affrettò a seguirla lasciandosi  portare via dalla prima alta marea e Ignazio rimase solo con il fedele Spavaldo.
Gli scettici dei sogni impossibili e tutti coloro che per un motivo o per l’altro pensavano che il matrimonio non si sarebbe mai fatto rimasero di stucco quando  lo speaker di Tele Onirica  annunciò a mezzanotte in punto del  primo giorno irreale dell’anno  l’unione fra Ignazio Vetere e la farfalla.
Ma da quel giorno in poi nessuno raccontò più i suoi sogni ragion per cui il mondo rimase ostaggio della realtà incontrovertibile e perse a poco a poco la  fantasia, l’immaginazione e la creatività. Al loro posto si imposero le facoltà della concretezza, quelle che non ammettono deroghe alla oggettività per cui nessuno più avanzò dubbi né contestò la verità che gli veniva propinata come unica e incontrovertibile appunto.
Ignazio si ritirò sul suo spicchio di montagna sotto i contrafforti dell’imponente maniero ma non tardò molto a rendersi conto che la sua vecchia casa di polvere di sogno non aveva più le finestre aperte sul campo dei cocomeri azzurri e che persino i broccoletti che a dispetto della realtà incontrovertibile affollavano in tutti i periodi dell’anno i giardini dei monaci certosini si erano dileguati insieme alle cime di rapa a caccia di un orto immaginario. Naturalmente coloro che avevano nelle loro mani i destini del mondo non potettero più nascondersi nella realtà discutibile e dovettero assumere una posizione unica, ferma e decisa.
L’amore fu bandito e così la tenerezza e la compassione. Spavaldo che viveva di carezze non resse a questa ignominia e si ammalò fino a morirne. La guerra si impose a tutte le latitudini. Le leggi autoritarie ebbero ovviamente campo libero e presto anche gli ultimi spicchi di sogno che i pochi poeti rimasti in vita avevano cercato di nascondere nelle pagine dei loro libri furono scovati e distrutti. Ignazio, l’ex capo famiglia degli ominidi, che in qualche milione di anni aveva imparato dai suoi predecessori a lasciare libere le sue emozioni, decise di raggiungere Astuzia, Disinvolto e Spavaldo.
Non gli fu difficile e fece la morte più adatta a lui: morì di vergogna.

 

 

 

 

 


 


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                              Personaggi e interpreti


Ignazio Vetere
Ignazio

Piena di Grazia
la farfalla

Pastiera (Annalimone)
dattilografa

Disinvolto
padre di Ignazio

Astuzia
madre di Ignazio

Felice e Sconsolata
bisnonni di Ignazio

DromeDario
zio di Ignazio

Cammella
zia di Ignazio

Partenope
sirena

Icaro e galatea
consuoceri Ignazio
 
Spavaldo
cane di Ignazio


 

 

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