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I denti del diavolo



Pubblichiamo questo bel racconto di Bruno Pezone tratto dalla raccolta ARCANA TEMPORIS - Storie stregate dell’Agro Aversano.

 

Cloppete, cloppete, cloppete...
Il cavallo procedeva da solo perché faceva quella stessa strada da almeno tre anni; e neppure avrebbe potuto cambiare direzione, dacché la viuzza da percorrere procedeva tra due alte pareti di vegetazione, costituite da rovi e alberi fitti.
Don Nicola, seduto - anzi stravaccato, è il caso di dire - comodamente sul sedile del biroccino, con le redini appena trattenute con la sola sinistra, osservava, sovente sbadigliando, le orecchie e la testa dell’animale caracollante.
«Aah...» mugugnava di tanto in tanto, più per sentire la sua stessa voce che per sollecitare la cavalcatura. Ogni tanto sollevava gli occhi verso la cima degli alberi che lo sovrastavano, quasi a contemplare la luna che faceva capolino tra i rami più alti. In certi momenti i raggi erano così luminosi, da sembrare tanti fasci di luce che si facevano spazio tra le fronde.
«Aah... aah» ancora qualche volta don Nicola;
«cloppete, cloppete, cloppete...
Don Nicola quella sera rientrava a Parete, provenendo da Giugliano. Si era incontrato con i soliti amici, insieme ai quali aveva fatto le ore piccole. I bicchieri di vino non si erano più contati sulle dita di una sola mano, così come le partite di tressette. Malgrado tutto ciò, era ancora alquanto sobrio: ci sarebbe voluto ben altro ad abbattere la sua fibra che, a dispetto della sua stazza tutt’altro che eccezionale (era ben piantato, ma non raggiungeva il metro e settanta), era incredibilmente forte.

*


Don Nicola, fin da ragazzo, era sempre stato un tipo risoluto, che non si era mai tirato indietro, vuoi per una scazzottata, vuoi nei campi ove aveva da sempre lavorato con lena, dando talvolta dei punti anche ai braccianti della sua masseria. Era, dunque, sempre stato un duro - come diremmo oggi - ma anche un generoso. Se qualcuno dei lavoranti che gli venivano condotti in azienda dai caporali – difatti - era troppo giovane, o troppo mingherlino, egli lo sfamava e lo pagava lo stesso, come se avesse lavorato per davvero. Così era Nicola, per questo o almeno anche per questo si era guadagnato il “don”. Intendiamoci, non era uno stinco di santo; ma certamente piaceva più al buon Dio che al diavolo...

*


Dopo una svolta verso sinistra la fitta parete di alberi e rovi, quella posta sulla destra del biroccino, andò velocemente degradando, fino ad aprirsi su di un’ampia spianata di vegetazione bassa, forse di erba medica. Dopo qualche centinaio di metri già s’intravedeva al chiaro di luna la sagoma di pietre e cespugli che erano ciò che restava di una vecchia costruzione che nessuno aveva mai saputo cosa fosse stata secoli addietro; forse un’antica osteria romana, o forse, più probabilmente, un sacello pagano; insomma chissà. Don Nicola non se l’era mai chiesto, anche perché di vestigia di quel tipo nell’agro aversano ce ne sono sempre state a decine: è terra di Storia oltre che di storie.
Giunto, dunque, in prossimità del rudere gli parve - ma era solo un’impressione - che l’aria si fosse fermata. Caterina, così si chiamava la giovane cavalla, rallentò quasi a fermarsi, come se avesse un ostacolo dinanzi agli zoccoli; don Nicola notava la testa dell’animale sollevarsi ed abbassarsi nervosamente, quasi in segno di diniego: “no, no, oltre non vado... “ sembrava volesse dire.
«Aah, aah... oé, aah, cammina, và...» la incitò don Nicola...
Ma poi anche lui stette zitto ad osservare... a captare con tutti i sensi, concentrato, come, solo qualche anno prima, aveva imparato al fronte, in trincea, durante la Grande Guerra.
«Uee, uee... guee!» era un pianto, anzi il pianto di un bambino! Possibile? Là in mezzo, a quell’ora di notte? E poi in quel posto, che lui ricordasse, non aveva mai abitato nessuno: non c’erano case, né masserie, né rifugi. Che qualche lavorante snaturata avesse dimenticato o lasciato il bambino... non sembrava possibile! Eppure quello era proprio un pianto! E di un neonato!
«Iih, iih!» intimò alla cavalla, che in verità già si era del tutto fermata, tirando forte a sé le redini
«... Aggia vedé che gghiè!» e saltò giù dal biroccio senza fare uso del predellino. Si sfilò la giacca buona e, dopo averla ripiegata con una certa cura sistemandola sul sedile, si avviò con passo sicuro nella direzione da cui proveniva il vagito; vagito che, del resto, da quando lo aveva percepito non era cessato neppure per un attimo. Seguì dunque quella traccia sonora e dopo qualche decina di metri, anche meno, su un mucchio di letame secco vide in modo nitido il corpicino di un neonato che, agitando braccia e gambe, vagiva a squarciagola
...Uee! uee!... uee!
Don Nicola avanzò correndo, e in un attimo si ritrovò tra le mani  - proprio tra le mani, non tra le braccia - il corpicino di un bimbo che non aveva più di due o tre giorni, poco più grande di una bottiglia di vino e del peso, sì e no, di due chilogrammi. La creaturina, che continuava ad agitarsi con i pugni stretti e a piangere, aveva gli occhi chiusi e serrati, ai cui lati s’intravedevano due lacrimoni che scendevano lungo le tempie. Nicola, che lo osservò ai raggi vividi della luna, restò sorpreso dal fatto che il piccolo - tra l’altro dal colorito chiaro e con una lievissima peluria bionda che ne ricopriva la testolina - era avvolto in un lenzuolino di lino bianco, finemente ricamato, che però gli lasciava libere braccia e gambe. Mentre rifletteva sul da farsi, ancora sconvolto per la meraviglia, si rese conto che il vagito era cessato del tutto, e il bimbetto sembrava che ora dormisse beatamente.
Si riscosse e si riavviò al biroccio, un po’ impacciato per quell’insolito fardello che stringeva tra le mani. Lo avrebbe condotto a casa; Nannina, la moglie, avrebbe pensato ad accudire quella creaturina, e poi al sorgere del sole sarebbe andato dai Carabinieri a raccontare il fatto e a passare il problema al maresciallo. Per ora quell’anima di Dio era in salvo.
Approssimatosi al biroccio Caterina aveva manifestato nuovamente segni di nervosismo, agitando il suo testone come aveva fatto poco prima; in più sbuffava e con le orecchie ritte insisteva in quell’intraducibile segno di diniego.
Don Nicola non se ne curò e, adagiato il bimbo sul sedile accanto a sé non prima di averlo avvolto delicatamente nella sua giacca, intimò all’animale di ripartire: “aah... muovete!”. La bestia, riluttante e forse offesa, ma sicuramente nervosa, si riavviò di buona lena, voltandosi sovente quasi a voler controllare il padrone.
Di tanto in tanto Nicola rivolgeva un’occhiata a quel fagottino alla sua sinistra che, oltre a continuare a rimanere silenzioso, gli era ormai quasi del tutto oscurato dall’ombra dell’alta vegetazione che i raggi della luna proiettavano da sinistra; egli intravedeva solo la sagoma di quel corpicino a sprazzi.
Trascorsero un paio di minuti.
Era stata solo un’impressione? Ché un raggio improvviso, che si era infiltrato per un attimo tra l’alto fogliame fitto, aveva data la suggestione a don Nicola che sul capo del bimbetto, ora, vi fosse un’ampia macchia scura: allungò la mano sulla testolina del piccino e sotto le dita avvertì la delicatezza della peluria bionda. Ma sì, solo un gioco di luci; ...Caterina girò ancora la testa, e le orecchie erano sempre ritte: «No! no!» sembrava che dicesse, ancora scuotendo su e giù il suo bel testone.
Un altro raggio di luce! Ancora un flash; di nuovo la macchia scura sulla testa del bambino; ancora più scura! Don Nicola guardò meglio alla sua sinistra. Ma sì, il piccolo aveva i capelli... scuri! Ed era sveglio... e lo fissava con due occhietti neri e penetranti... e gli sorrideva...
Non era possibile! Che vino gli avevano propinato alla cantina di mastro Fiore?
Si girò nuovamente a guardare alla sua sinistra e gli occhi del piccolo - il piccolo!? - continuavano a fissarlo e gli sorrideva, adesso in modo beffardo, quasi a prenderlo in giro... a sfotterlo! E la macchia sempre più scura si era estesa anche alle gote. Nicola tirò le redini con forza; Caterina nitrì per il dolore e si fermò di colpo con uno sbuffo. Don Nicola si alzò in piedi e sollevò il bambino per sottrarlo alle tenebre dell’ombra e illuminarlo del tutto. Quanto pesava ora quel corpicino! Altro che due chili; erano almeno venti. Restò sbalordito prima e un attimo dopo inorridito: il bambino aveva i capelli neri e fitti e lunghi... e aveva pure la barba!
«Ma ‘stu criaturo tene a barba!...» gridò Nicola con la voce strozzata mentre lo teneva sollevato ai raggi della luna.
«... e i denti non li vedi?!» fu la risposta del “piccolo”, accompagnata da un ghigno raccapricciante ...di trionfo!
La giacca, il bambino, o cosa DIAVOLO fosse quella cosa ora pesante come un macigno, furono scaraventate lontano fuori dal biroccio, e il tonfo sull’erba fu netto.
«Aah! Aah!» gridò a squarciagola Nicola a Caterina, mentre, in piedi, allentava le redini «Vai! Vai! Aah! Aah!...»
La cavalla con la testa sempre bassa, ondeggiante appena, pensò solo a trottare a rotta di collo, come meglio non aveva mai fatto...
Cloppetecloppetecloppetecloppetecloppetecloppete...

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