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Don Angelo il boia



Vi proponiamo un racconto di Dino Simonelli tratto dal suo libro Napoli ...sempre.
Buona lettura!


Don Angelo il boia



“Un uomo fa quello che è o è quello che fa?”
“Bah!”
La domanda gli era sorta spontanea nella testa, osservando quell’uomo vestito di scuro.
Ma il problema, già di per sé complicato, a quell’ora diventava assolutamente insolubile.
Dalla cucina, assieme al profumo del ragù, già arrivava la voce della moglie…”metti la tavola che ho buttato la pasta. Fa presto, se no si ammolla.”
A questo punto, al Presidente del Tribunale rivoluzionario non restava altra scelta: doveva assumere il tizio alto e allampanato che stava in piedi davanti a lui con l’aria seria e compunta.
Non c’era tempo da perdere. D’altra parte, le referenze sono ottime: è il figlio di quel don Agostino che è stato boia, anche molto apprezzato per la verità, per più di trent’anni. Fino al giorno in cui pure il suo collo si è spezzato, cadendo per le scale del patibolo.
Il posto non poteva restare vacante, andava ricoperto subito: lo richiedeva l’urgenza dei tempi.
Il lavoro era assai.
Bisognava scegliere bene, però: il ruolo era delicato e richiedeva, quindi, una figura professionale altamente specializzata.
Brutte figure non ne dobbiamo fare.
L’uomo sembrava all’altezza: aveva il fisico giusto, i nodi li sapeva fare e, poi, la tradizione familiare deve pur contare qualcosa.
E così don Angelo si trovò impiegato nella Pubblica Amministrazione. Prese il cappuccio e la corda e se ne tornò, tutto contento, a casa. Sulla tavola, un piatto rivoltato tentava di mantenere caldo il piatto di maccheroni con un poco di sugo.
“Auguri, auguri!” esclamò felice donna Felicetta, una chiatta pancia messa a dividere  due gambette tozze da un’ispida capigliatura nera, appena ebbe appreso la bella notizia; e, rivolta ai bambini, quattro mi pare che fossero,… “ bambini, avete sentito? Fate anche voi gli auguri a papà. Siete contenti? Adesso siete i figli del boia!”
I bambini furono contenti.
Avevano presenziato spesso alle esibizioni del nonno, ma, schiacciati nella folla di pescivendoli, lavandaie e brave massaie che non mancava mai allo spettacolo, piccoli com’erano, avevano visto, più che altro, soltanto gonne e pantaloni stracciati. Ora, la prima fila era, finalmente, assicurata.
E, a casa poi, il divertimento era continuo. Ogni tanto, prendevano di nascosto dallo stipo gli attrezzi da lavoro del caro genitore e giocavano ad impiccarsi l’un l’altro. La più brava era la bambina.
Le donne hanno sempre saputo come prendere per la gola!
È vero: c’era il cappuccio che difendeva la privacy – non lo so come si chiamava all’epoca la privacy – ma, a Napoli, quanto dura un segreto? Il boia, come le spie, lo conoscevano tutti quanti. Quando andava al lavoro, col cappuccio nero sotto il braccio, i vicini, premurosi …” buon lavoro don Angelo. Se ci poteste riservare un posto ci fareste un grande piacere. Sapete, così approfittiamo che non ci sta nessuno nei negozi e facciamo un po’ di spesa prima di venire a…”.
Il lavoro era tanto… “Angiole’, com’è andata stamattina?”
“Giornata pesante, Felice’. Ne ho appesi cinque.”
Effettivamente, il Tribunale del popolo si dava da fare. I reazionari e i realisti erano ancora  troppi e non volevano proprio accettare i tempi nuovi: quelli della Fraternità e dell’Uguaglianza.
Al Largo di Palazzo, l’albero della Libertà stava ancora là. Ma, intorno nessuno ci ballava più. Anche per fare un girotondo ci vogliono la voglia e l’energia: e dove stanno più!
I girotondi avrebbero dovuto attendere…
Solo editti e proclami. Ma il popolo non sa leggere.
I nobili sono diventati democratici, ma sempre nobili sono. Nei palazzi loro il piatto a tavola, a mezzogiorno, si mette sempre. E a tavola con loro si siedono soltanto qualche dottore, il poeta e il musicista: quelli che, ieri e l’altro ieri, mangiavano alla tavola del re.
Le strategie dei monarchi le conosciamo: feste, farina e forca.
Ora che i monarchi non ci stanno più, delle feste abbiamo detto, la farina se ne è andata, è rimasta soltanto la forca.
Con il malcontento che cresce, si sa, la reazione si ingrassa.
Datevi da fare, don Angelo, impiccate! Impiccate!
Il materiale arriva anche da fuori.
Don Angelo è contento.
Finché ci sta il lavoro, ci sta pure il pane. Il fornaio glielo tiene da parte, posato sottosopra: per distinguerlo.
Il Presidente del Tribunale è soddisfatto. Seduto sull’alto seggio osserva il lavoro di quell’uomo preciso e meticoloso che, con grande lungimiranza, una mattina, ha scelto come boia.
“Un uomo fa quello che è o è quello che fa?”
“ Bah!”
Il problema non lo ha risolto; ora poi non c’è nemmeno il tempo di pensarci: il lavoro è tanto, i pensieri si affollano nella testa e, poi, ci sta quella …”metti la tavola che ho buttato la pasta!”
Un uomo….E le donne?
Le cose si stanno mettendo male e le donne della Rivoluzione stanno come tante pazze! La Pimentel Fonseca si sfoga scrivendo, da sola, un giornale tutto intero e, se dalla Calabria le notizie non arrivano, se le inventa lei: tanto…il giornale se lo leggono tra di loro. La Sanfelice sfoga in un altro modo; sfoga assai e, una notte confonde i letti e i turni, parla troppo e dice quello che non avrebbe dovuto dire a chi non avrebbe dovuto sentire. La pagherà.
Ma, dico io, invece di parlare…!
Anche dall’altra parte le donne non scherzano: la regina, Maria Carolina, va appresso appresso al marito…”Ferdina’, tu devi vedere quello che devi fare, ma tu me li devi uccidere tutti quanti! Te lo ricordi o no che quelli là hanno tagliato la testa a mia sorella? E si sono presi pure le parrucche che mia sorella aveva speso tutti quei soldi!”. Quell’altra, lady Hamilton, ora, la…lady la sta facendo a Palermo e la fa, spesso e bene, con l’ammiraglio Nelson. Il grande Horatio, però, sarà pure grande, ma….non in tutto. Caracciolo era un’altra cosa! E la brava Emma glielo dice continuamente al pallido inglese. Nelson volentieri la riempirebbe di mazzate, ma il visino è bello e il corpicino è sinuoso: la signora può servire ancora! Se la prenderà con il povero ammiraglio napoletano. “Tu puoi pure tradire… ti togli una divisa e te ne metti un’altra, ma l’amore no! L’amore mio non può…distruggermi la salute per colpa tua. E quella sta continuamente a ricordarmi quant’eri bello e quant’eri bravo! Caracciolo mio, mi dispiace, ma devi morire!” A Horatio l’invidioso l’unico occhio gli brilla maligno.
Ci penserà il buon don Angelo.
E sì! Perché i bravi boia sono come i gatti: si affezionano alla casa, non al padrone.

 

Le bande della Santa Fede, al comando del pio Cardinale Ruffo, si stanno avvicinando. Sono alle porte della città.
Bisogna fare presto.
Il povero boia è stanco, ma va avanti. Un po’ perché lui è fatto così: non sa dire di no; un altro poco perché, con gli straordinari, potrà mandare la sua signora dal parrucchiere e …chissà!
E allora Angelo, sudato sotto il cappuccio di tela scura, corre da un condannato all’altro, prende la misura, allarga il nodo scorsoio, lo sistema per bene attorno al collo e …via!
Che fatica! Non si smette mai!
I realisti sono entrati in città. Si combatte per le strade. Come si dice? Il sangue scorre a fiumi. La rivoluzione è sconfitta.
È fernuta ‘a pazziella!
Preceduti da frati incappucciati in saio bianco, al rullo dei tamburi, avanzano i martiri della Repubblica Partenopea. Ad uno ad uno salgono le scale del patibolo: Eleonora inciampa, quasi cade, sollecito l’aiuta il buon don Angelo, il boia.
Per Francesco Caracciolo gli tocca andare fino al porto, sulla Minerva, la nave che questi ha comandato fino a ieri. Ma ne vale la pena: il pubblico è competente e selezionato. Ci sono tutte le più eleganti e belle signore di Napoli a tenere compagnia alla regina che, in fondo, è una romanticona: vuole vedere il bel corpo penzolare dal pennone sullo sfondo del mare blu.
Il Presidente del Tribunale rivoluzionario è sceso dallo scranno; è sul patibolo anche lui. Guarda l’uomo che ha di fronte…”questa faccia la conosco…”
Mentre la corda gli stringe il collo,…. improvviso e irragionevole gli torna nella testa quel pensiero…
” ma l’uomo fa quello che è o è quello che fa?”
Bah!

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