Vi proponiamo un piccolo ma interesante stralcio dal libro Vallesaccarda 1958/2008, edizioni Delta 3, a cura del Comune di Vallesacarda (ringraziamo il Sindaco, Gerardo Michele Pagliarulo, per averci consentito l'uso di parti di questo bellissimo libro).
Il libro è stato prodotto in occasione dei 50 anni della nascita del Comune di Vallesaccarda. In precedenza la cittadina era una frazione del Comune di Trevico.
Nelle righe che vi proponiamo, vi è una accurata descrizione di quelle che erano le condizioni di vita in un piccolo paese dell'entroterra campano a cavallo della seconda guerra mondiale.
Dopo la seconda guerra mondiale, Vallesaccarda era una frazione del Comune di Trevico ed era composta di numerose piccole borgate, che, tutte insieme, erano più grandi che Trevico paese. Gli abitanti erano per la massima parte mezzadri, coloni o braccianti, tutti poveri fino alla disperazione.
Il cimitero si trovava a Trevico, a quasi 1000 metri di altitudine. Serviva tutta la popolazione
del comune, in gran parte abitante nelle frazioni dello stesso, e tra queste Vallesaccarda, situate diverse centinaia di metri più a valle.
Quando moriva qualcuno, bisognava
portare la bara sulle spalle fino a
Trevico, inerpicandosi sulle stradine
Impervie e fangose. D'inverno,
quando c'era la neve, a quei tempi spesso
abbondante, gli spalatori volontari dovevano
liberare un tracciato lungo il quale
procedevano i parenti con la bara
sulle spalle: non era raro che alcuni di
loro si a mutilassero gravemente.
Si trattava, quindi, di un problema
sentito, oggetto di numerose richieste
mai esaudite, nei decenni precedenti.
.
Dopo il 1948 si fecero più insistenti
le richieste, questa volta, però,
con l'impegno del sindaco Alfredo
Addesa e dell'Amministrazione Comunale.
Finalmente il cimitero fu finanziato
e costruito. Fu inaugurato verso
l'estate del 1953 e inizialmente fu diviso
in quatto settori. A destra, entrando,
c'era un settore destinato alla sepoltura
dei bambini piccoli o neonati:
all'epoca vi era una mortalità infantile
incredibile, tanto che nel giro di pochi
anni, forse un decennio, il settore si
riempì. A sinistra, il secondo settore,
era destinato alla sepoltura degli Evangelisti,
che, all'epoca, erano più numerosi di oggi, e gli altri due settori erano
destinati a tutti gli altri.
Ancora per più di metà degli anni cinquanta non c'era l'energia elettrica e, di sera, nelle case si accendevano delle lanterne ad olio. Nelle case di chi stava economicamente un po' meglio si utilizzava il "gassometro", che cacciava la fiamma da un beccuccio da cui fuoriusciva un gas acetilenico, prodotto dalla pietra di carburo di calcio immersa nell'acqua, e che illuminava di più.
Per qualsiasi atto amministrativo,
per qualsiasi certificato, bisognava
ogni volta sobbarcarsi ad uno stressante
viaggio, a piedi o in groppa ad un
asino, nella migliore delle ipotesi.
Solo
verso il 1955, per l'impegno del sindaco
Vittorio Pagliarulo, fu istituito un
distaccamento dell'anagrafe, senza un
ufficio vero e proprio: inizialmente
l'incarico fu dato a Pagliarulo Michelino,
che conservava i registri a casa
sua.
In un secondo momento fu istituito
l'ufficio e fu nominato un reduce di
guerra di Vallata in possesso della terza
media, che si chiamava Del Sordi
Paolino. Era un uomo molto mite e
benvoluto da tutti per la sua affabilità.
Il tragitto Vallata-Vallesaccarda e viceversa
lo percorreva sempre a piedi e
senza mai arrivare in ritardo.
Non c'era l'ufficio postale. Portava
la posta da Trevico un tal Felice "lu pustier'".
Verso gli inizi degli anni quaranta
fu istituito un collettore postale
e l'incarico fu dato ad un tale Anacleto,
aiutato, come portalettere, da Pasquale
Ragazzo. Questi, successivamente,
verso il 1945, diventò a sua volta
collettore. Si parla molto bene di lui
in un articolo del 25.09.1945 del "Corriere
dell'Irpinia":
«La collettoria di Vallesaccarda
ha funzionato sempre irregolarmente.
Ora grazie alla instancabile opera del
collettore Pasquale Ragazzo, la posta
parte e arriva con molta puntualità. Il
Ragazzo sostituisce le corriere con
l'andare a prendere e portare la posta e
i giornali a piedi, al zelante impiegato
vadano i ringraziamenti di tutta la
popolazione, specialmente delle madri
dei prigionieri, alle quali, l'arrivo di
una lettera dei cari congiunti lontani,
apporta un grande sollievo».
E, quando fu istituito l'ufficio postale,
diventò anche il primo impiegato
a Vallesaccarda. Era conosciuto come
"Pasqualin' lu pustier'" ed operò,
prima dove c'era l'ammasso in piazza
(dove c'è attualmente la "Cioccolateria")
e poi dove adesso c'è il panificio
Pizzulo Rosa con ingresso da Rampa
Garibaldi. Con la nomina di Borrelli
Geremia, (altra figura storicamente
emblematica del piccolo paese), a portalettere,
fu completato, diciamo così,
l'organico.
La gente di Vallesaccarda era incredibilmente povera. La quasi totalità delle persone non poteva mangiare neppure il pane bianco di grano, quasi tutti dovevano accontentarsi del "parruozzo", che era un pane fatto con la farina di granturco, poco gradevole, tanto che, per migliorarlo, si mettevano anche i semi di finocchietto, pesante come il piombo, odiato da chi era costretto a mangiarlo. La dieta dei poveri prevedeva molto spesso la verdura, non per scelta o per gusto, ma per necessità. I "Signori", per dileggio, definivano i poveri "mangiafoglie". Il ricorso alla verdura era una vera e propria necessità, perché non dovevano comprarla e perché nasceva spontaneamente anche nei demani dello Stato, anche lungo i vecchi tratturi ben concimati dal passaggio di migliaia di pecore. Qualche soldo lo vedevano al tempo della mietitura. Agli inizi di giugno, infatti, tutti gli uomini in età di lavoro e perfino i ragazzi, dai tredici o quattordici anni, partivano con la falce per andare a mietere il grano in Puglia. Si formavano le "paranze" di quattro mietitori, agli ordini di un "antiniere", e sostavano nella piazza di Candela o di Ascoli Satriano nell' attesa che venissero ingaggiati. Inomma, c'era una povertà incredibile. Molti matrimoni non si potevano fare per mancanza di soldi. Spesso quelli che si volevano bene se ne "scappavano" e passavano la prima notte di nozze in un pagliaio.