Da qui puoi andare direttamente al contenuto principale

tre foto della campania e logo quicampania
icona per aumentare la dimensione dei caratteriicona per diminuire la dimensione dei caratteri

Capo Antonio


di Carlo Visconti


Antonio Scamardella era un sommozzatore della Marina Militare in pensione.
Quel titolo (capo) era il soprannome che i “bacolesi” gli avevano affibbiato. Si compiaceva del suo passato, ma ancor più del suo presente.
Nel 1960 fui invitato dai Gallucci a trascorrere un periodo nella loro casa di “villeggiatura” di Bacoli e  Enzo, che già lo frequentava da tempo, me lo fece conoscere.
Aveva un gozzo di legno, molto ben tenuto, sulla spiaggia di “maramorto” (quella della foto) con il quale ogni mattina raggiungeva qualche insenatura della baia di Capo Miseno per pescare e fare il bagno in compagnia del figlio piccolo, Mimì e della figlia ( come si chiamava ?) di una decina d’anni.
Già dal primo giorno del mio soggiorno imparai il rituale preparatorio all’uscita in barca.
Raggiunta la casa di Capo Antonio, a ognuno era affidato un pezzo dell’attrezzatura occorrente: il secchio con la “cima”, i remi, il coppo per pescare, le lenze, la tanica dell’acqua, la borsa con i beni di “sussistenza” e all’occorrenza un bidone di latta (quello dell’olio da 25 litri).
Lungo il percorso verso il mare il gruppo si fermava dal fornaio per ritirare un filone di pane, dal quale, tolto il “cozzetto”, era estratta la mollica interna con un lungo coltello.
Un po’ più avanti ci s’infilava in una delle tante case nel cui retro c’era l’orto.
“Buongiorno commare Mari’, me facce due pummarole e na’ fronne e basiliche” .
“È casa vostra, pigliate chelle che vulite”.
Le mezze fiaschette, ancora non completamente rosse, prendevano il posto della “cima” nel secchio; sulle mani il pizzicore della foglia di pomodoro e nel naso l’odore tipico della pianta.
Lungo la strada tra una battuta e l’altra con i compaesani incrociati, Capo Antonio, trasferiva a noi le sue pillole di saggezza e di esperienza maturata nel suo pesante lavoro di sommozzatore in ogni parte del mondo.
La barca in secco sulla spiaggia, scoperta dal telo che la ricopriva e liberata dai sostegni laterali, veniva fatta scorrere sugli scivoli che, agli ordini del Capo, occorreva spostare davanti nel tragitto verso il mare.
Ogni cosa da noi trasportata doveva essere messa al suo posto.
Sotto il gavone di prua trovava alloggio il filone di pane, nel frattempo riempito con il pomodoro tagliato e infilato nel foro praticato. Anche questo era un rito!
Noi “assistenti” passavamo alternativamente l’olio, il basilico, il sale, l’origano (tirati fuori dalla borsa della sussistenza), parte della mollica da reintrodurre nel foro e il cozzetto per richiudere. Infine, il “palatone”, avvolto nella busta di carta, era messo a riposare al fresco.
Sotto il gavone di poppa erano stivate le cime, le borse degli ospiti, la tanica e quant’altro.
Per salire a bordo ognuno doveva sciacquare i piedi dalla sabbia e sedere in posto assegnato in funzione della più razionale distribuzione dei pesi.
Gli scalmi di legno, ingrassati all’occorrenza, accoglievano i remi posti in maniera sfalsata per consentire la voga in piedi.
Capo Antonio saliva per ultimo, dopo aver spinto la barca e, seduto sul gavone di prua, puliva i piedi dalla sabbia, agitandoli nell’acqua.
Si poneva con un piede avanti e l’altro dietro e iniziava a vogare, spingendo con le braccia, avanzando con il corpo per dare maggiore forza.
Nella fase di uscita dall’acqua, diceva, occorre ruotare i polsi per dare  maggiore spinta e ridurre l’attrito dei remi con il mare. Dava sempre una spiegazione razionale ai gesti, ai comportamenti che chiedeva di assumere.
La nostra meta cambiava ogni giorno ma non era mai vicina; almeno un miglio.
La barca passava tra le altre ancorate alla boa e si avviava verso capo Miseno. Dovevamo passare necessariamente sotto un alto costone di tufo a strapiombo sul mare sopra il quale s’intravedeva un terreno coltivato con frutteti e vigna.
Capontonio smetteva di vogare ma lasciava il remo sinistro in acqua perché la barca con l’abbrivio si avvicinasse alla costa.
“ Rafe’ votte nu’ poche e’ frutta”.
Raffaele era un tipo riservato, scontroso direi; in paese si vedeva pochissimo.
Ai nostri richiami, dal costone a strapiombo sul mare, si vedeva spuntare, dietro un pesco o una vite, un braccio e giù piovevano in acqua pigne d’uva, pesche, percoche, prugne, a richiesta limoni.
Con il retino raccoglievamo quella frutta piovuta dal cielo e riprendevamo la direzione di capo Miseno.
Passando sotto lo Scacchetiello (un isolotto nel mezzo della baia), Capo Antonio rallentava in prossimità di una grotta che lo attraversava da una parte all’altra, e indicava con certezza matematica la situazione delle correnti e del mare che avremmo trovato oltre il Capo.
La scelta della nostra meta avveniva in quel momento.
Quel giorno, il primo per me, decise, nonostante il mare calmo, di approdare alla “spiaggetta verde”.
Era un’ampia insenatura, molto riparata che terminava con una piccola spiaggia sottoposta a un alto costone di tufo sormontato da una foltissima vegetazione; da qui il nome.
Da un lato e dall’altro s’intravedevano i resti di costruzioni romane sia fuori sia sott’acqua.
Un posto magico; lì c’era stata la villa di un Patrizio.
Era anche un posto dove pescare con il coppo.
Mentre il resto del gruppo si era sistemato sulla spiaggia, io, Capo Antonio e Mimi ci avvicinammo con il gozzo agli scogli per raccogliere le cozze che, schiacciate sommariamente, furono poste sul fondo del coppo a mo’ di esca.
Mimì era abilissimo e immediatamente tirò su l’attrezzo con pescetti vari: pinterrè, cagne, vavose.
Quando fu il mio turno, non ebbi successo; troppa fretta, mi disse e via con l’immancabile proverbio.
“A’ iatta pe’ fa’ ‘mpresse facette e figli cecate”.
Uno dei lati dell’insenatura era costituito da una lingua di tufo che si allungava nel mare.
L’ideale per correre e fare tuffi.
Solo in seguito capii che quella scelta era servita per saggiare le mie propensioni marinare: un tirocinio in attesa di prove più impegnative.
Difatti nei giorni successivi la nostra meta fu lo scoglione di Capo Miseno.
È un enorme masso, alto una dozzina di metri e piatto sulla cui sommità c’è una torretta di cemento con feritoie ai quattro lati costruita dai tedeschi per controllare quella zona di mare.
Il piccolo canale che lo divide dal costone di Capo Miseno è costantemente percorso da onde.
Vicino a quegli scogli, però, c’erano le migliori cozze che io abbia mangiato.
La prima parte della mattinata era dedicata alla raccolta delle cozze da portare a casa.
Un lavoro impegnativo per le correnti.
E lì avvenne la conversione.
Odiavo i pomodori all’insalata, ma quando Capo Antonio dalla barca ci porse un pezzo del famoso palatone con i pomodori, senza troppo pensarci lo mangiai, assaporando quel connubio di sapore del mare, del pane, del basilico.
Forse contribuì a tanto anche quel gesto dissacratorio di un assunto fino a quel momento imperativo: il bagno si fa da digiuni.
Il resto della giornata era dedicato all’esplorazione della costa e dei fondali ma anche alla ricerca di legni trasportati dal mare che il nostro capo ci diceva di ammucchiare in un certo posto perché sarebbero serviti.

Per qualche settimana, al gruppo, si aggiunse “il maresciallo” con suo figlio.
Villeggiava a Bacoli, perché amico di vecchia data di Capo Antonio.
Si erano, però, ritrovati solo da qualche anno.
Era un tipo smilzo, con i baffetti, di poche parole; il figlio, la sua fotocopia senza baffetti.
Me lo ritrovai un giorno sotto casa di Capo Antonio ad aspettarci già con un bidone di latta in braccio: di quelli usati per il trasporto dell’olio, della conserva; il classico “buattone”.
A suo figlio era stato affidato il compito di portare un piccolo treppiede di ferro: quello utilizzato per appoggiare la “fornacella” per la brace.
Quel giorno, a Raffaele, furono richiesti anche i limoni.
All’arrivo sotto lo scoglione, la barca non fu ancorata ma tirata a secco, utilizzando gli scivoli di legno, in un punto dove le rocce degradavano dolcemente verso il mare.
Il gozzo, bloccato dai puntelli laterali e ancorato alla roccia con la cima di prua, fu smontato del tavolato del fondo che dovette essere lavato accuratamente.
Iniziammo a raccogliere le cozze con la raccomandazione di prendere solo le più grosse.
I frutti di mare, puliti del filaccio, furono messi nel “buattone”.
Nel frattempo Capo Antonio aveva sistemato il treppiede in un anfratto riparato e con una piccola cavità sottostante nella quale furono stipati quei legnetti in precedenza raccolti.
In quella “focara” naturale cuocemmo le cozze.
Il tavolato più grande, riposto a mo’ di coperchio, servì per l’operazione di rovesciamento e al tempo stesso da piatto di portata per il banchetto.
I limoni di Raffaele furono spremuti su quel mucchio fumante.
Per tutti questi decenni mi sono ripromesso di ripetere quell’esperienza incredibile.
Non l’ho fatto! Ho temuto di perdere il ricordo del profumo, del sapore di quelle cozze che sapevano di mare pulito, di fumo profumato e dei sentori della salsedine di cui erano intrisi i legni bruciati.
E poi, sarei riuscito a riprodurre quell’atmosfera?
Potemmo riprendere le nostre abituali attività solo dopo aver raccolto ogni residuo e pulito con generose secchiate di acqua le rocce e il tavolato della barca.
Quello che non apparteneva al mare doveva essere portato via.
Sulla strada del ritorno facemmo una deviazione ed entrammo in una grotta proprio sotto il costone tufaceo sulla cui sommità c’era la terra di Raffaele.
La cavità si addentrava per una decina di metri e finiva con una scura, piccola spiaggia.
In tutta la zona di mare all’interno della grotta si vedevano leggeri gorgogli; l’odore di uova marce e le infiorescenze gialle sulle pareti indicavano l’esistenza di una sorgente solforosa.
Facemmo il bagno in quell’acqua miracolosa per la cura della pelle: un rituale che ripetemmo ogni settimana.
Con quell’odore sulla pelle che mi sembrò nauseabondo, facemmo ritorno.
Solo dopo aver sistemato il gozzo, potemmo lavare il viso e i piedi con l’acqua fresca che avevamo a bordo.
Le pulsioni giovanili mi portarono negli anni successivi altrove.
I nuovi interessi fecero cadere in un letargo gli insegnamenti di vita appresi in quelle poche settimane.
Avevo però girato l’angolo.
La certezza che si può essere felice con poco aveva sepolto in un punto profondo i ricordi di un’infanzia non facile.

INVIACI UN COMMENTO

Aspettiamo i tuoi suggerimenti, le tue critiche, i tuoi commenti!


SEGNALA AD UN AMICO

Se il sito o un articolo ti sono piaciuti, perchè non dirlo ad un amico?