Riportiamo un ampio stralcio di un articolo pubblicato sulla rivista l'Alfiere, a firma di Fernando Riccardi, dedicato alla storia di uno stabilimento siderurgico voluto dai Borbone, stabilimento che, come tanti altri opifici industriali, non riuscì a "sopravvivere" all'Unità d'Italia.
Ringraziamo Eduardo Vitale per l'autorizzazione alla pubblicazione.
Intorno al 1850 il re di Napoli Ferdinando II di Borbone
pensò bene di rispolverare un progetto cui già suo nonno
aveva messo mano sul declinare del secolo precedente: lo
sfruttamento delle miniere di ferro in Terra di Lavoro.
Nel
1778 a Settefrati, in località Madonna di Canneto, a più di
mille metri di altezza, era iniziata la costruzione di uno stabilimento
siderurgico i cui macchinari, servendosi della
forza motrice generata dalle acque del fiume Melfa, alimentavano
le cosiddette "macchine soffianti" che trasformavano
la limonite estratta dalle miniere in ferro e ghisa. Una decina
di anni dopo, però, l'impresa fu abbandonata per una
serie molteplice di ragioni: la scomodità del sito che, specie
d'inverno, con il freddo intenso e la neve, diventava di fatto
inospitale, l'assenza totale o quasi di vie di comunicazione
che comportava enormi problemi per il trasporto dei manufatti
e, infine, la non eccelsa qualità della materia prima. La
limonite, infatti, contaminata da tracce di rame e di argento,
non assicurava una riuscita ottimale del prodotto finito. E,
dovendo la ghisa e il ferro trovare impiego soprattutto nell'industria
navale da guerra, la cosa non era assolutamente di
poco conto. Alla fine del XVIII secolo lo stabilimento di
Canneto venne definitivamente abbandonato.
Cinquant'anni
più tardi Ferdinando II volle riprovarci. Nubi dense di tempesta
stavano per addensarsi sul suo regno e diventava indispensabile
incrementare sempre di più l'industria bellica.
Egli, però, non ripeté l'errore del nonno e decise di andare in
altra direzione, sguinzagliando i suoi ingegneri alla ricerca
di nuovi giacimenti da sfruttare.
La zona, del resto, si prestava
meravigliosamente alla bisogna. Fin dall'antichità, i
Romani e, prima di loro, i Sanniti e, prima ancora, gli
Etruschi, avevano combattuto cruente battaglie per assicurarsi
il possesso delle miniere di ferro dei monti della Meta.
Anzi, a quanto pare, fu proprio la presenza di tale prezioso
minerale che indusse gli Etruschi a giungere nel Lazio meridionale,
per passare poi in Campania dove i prodotti in ferro
trovavano florido mercato. "La ricca zona mineraria del
monte Meta - scrive il Colasanti - costituì indubbiamente la
ricchezza di Atina potens, la vetusta città che sorse ai suoi
piedi e le cui officine per la lavorazione dei metalli furono
rinomate nella remota antichità".
Ben presto l'impegno del
re di Napoli fu coronato da successo: nuovi giacimenti di
limonite o, meglio, di ematite bruna compatta, furono scovati
a San Donato, sulle falde della montagna denominata
"Rave rossa", oggi monte Calvario, e poi anche ad Alvito e
a Campoli.
A questo punto si rese necessaria la costruzione
di un nuovo stabilimento: non era pensabile, infatti, ripristinare
il vecchio impianto di Canneto ormai da tempo in disuso.
La scelta ricadde allora su Rosanisco, piccola frazione di
Atina, in un sito collocato a 200 metri dalla sponda destra
del fiume Melfa, poco distante dalla "Sferracavalli", la strada
rotabile che conduceva a San Germano, l'odierna
Cassino. Nel 1855 iniziarono i lavori e nel giugno del 1858
vi fu la cerimonia di inaugurazione. Ancora oggi si possono
ammirare le strutture murarie del grande complesso siderurgico
che gli abitanti del luogo chiamano comunemente "la
ferriera".
Di lì a poco tempo nella "magona di Atina", officina dove
si effettuava la prima lavorazione del minerale grezzo, entrò
in funzione un altoforno che, lavorando la limonite estratta
dalla miniera di San Donato, sfornava ghisa di buona qualità.
In quel periodo si giunse a produrre giornalmente 3.100
kg. di ferro grezzo.
Ma proprio quando tutto sembrava
avviato per il meglio, nel Sud irruppero Garibaldi, i Savoia
e... fu l'inizio della fine. Pensiamo al poderoso
complesso industriale della Valle del Liri che, in pochi anni,
cessò praticamente di esistere, annientato dalla concorrenza
delle fabbriche del nord Italia e dalla politica dei
nuovi governanti. La stessa sorte nefasta subì l'industria
mineraria. Alla fine del 1860 la "magona di Atina" venne
chiusa e abbandonata. Presa in carico dal neonato
stato italiano, passò dal Ministero della Guerra a quello
delle Finanze che la mise in vendita.
Nel 1878 i fratelli Visocchi, che già possedevano una cartiera ad Atina, acquistarono lo stabilimento di Rosanisco e lo adibirono ad altre funzioni. Le miniere di limonite di San Donato, così come le altre della valle, caddero in un rovinoso e definitivo abbandono.