Il caso Aunis
A tutt'oggi, siamo nella seconda metà del 2013, il caso dei due nostri marò in servizio sulla nave Enrica Lexie e tenuti in stato di arresto in India, non è ancora arrivato alla sua conclusione.
Pochi sanno che alcuni "ribelli" napoletani furono protagonisti di un caso simile nel lontano 1863. Si tratta del cosidetto
Caso Aunis, dal nome della nave che li trasportava.
Pubblichiamo un estratto del brillante articolo scritto da Gaetano Marabello e pubblicato dalla rivista L'Alfiere. Ringraziamo il suo gentilissimo direttore, Eduardo Vitale, per averci consentito la pubblicazione di questa interessantissima storia.
Il brutto affare dell' Aunis
Di sicuro, in una nazione diversa
dall'Italia odierna, il caso
della Enrica Lexie, ove erano i
due marò del battaglione San Marco fermati
per l'uccisione di due indiani, sarebbe
stato tutti i giorni sulle prime pagine.
Invece per il tarantino Massimiliano
Latorre e il barese Salvatore Girone,
imbarcati ufficialmente in funzione di
contrasto alla pirateria, le notizie col contagocce
sono state la regola, benché
rischiassero e rischiano l'ergastolo o la pena capitale.
Nell'intera a vicenda, a prescindere dalla
sua conclusione, ci sembra giochino
ragioni che nulla hanno a che fare con la
giustizia. Naturalmente, anche in passato
le cronache marittime hanno registrato di
quando in quando episodi, capaci di creare
tensioni tra due Stati.
…
Il caso Aunis
Seguì in data 10 luglio 1863 il clamoroso
Incidente dell'Aunis. Ce ne occuperemo
qui di seguito, perché per molti
aspetti esso s'avvicina al caso della Enricao
Lexie. Quella volta, a trovarsi di fronte,
furono Italia e Francia. Il bastimento
coinvolto nella querelle fu un piroscafo,
che portava il nome d'una provincia
francese e che svolgeva servizio di messaggeria
postale imperiale. Quel giorno,
esso annoverava come passeggeri cinque
guerriglieri del deposto sovrano delle
Due Sicilie Francesco II. I "briganti"
possedevano un regolare passaporto che
li qualificava "onesti industrianti", vistato
dalle ambasciate francese e spagnola
di Roma (come meta c'era non solo Marsiglia,
ma anche Barcellona). Su delazione
di qualche spia capitolina, il prefetto
di Livorno segnalò al collega di Genova
la presenza a bordo dei ricercati. Sicché,
appena il vapore fece scalo intermedio
nel porto ligure, il questore inviò sulla
nave una squadra di poliziotti con l'ordine
di perquisizione e arresto. E solo
dinanzi alle resistenze del comandante e
del suo vice le autorità locali si decisero
a rivolgersi al consolato francese della
città. Messo sotto pressione, il console
cedette, salvo rimangiarsi tutto a cose
fatte adducendo d'aver voluto "evitare
scandali".
…
L'arresto e la contesa franco-italiana
Sta di
fatto che i cinque passeggeri vennero
comunque arrestati, anche se i due fratelli La
Gala tentarono invano d'evitar la cattura
buttandosi in mare. Due giorni dopo, il
ministro degli esteri francese accusò
apertamente il prefetto italiano e il console
francese d'eccesso di potere in una
questione politica, la quale dipendeva
esclusivamente dalla Legazione dell'Imperatore
in Italia. Chiese quindi la restituzione
dei prigionieri. Anche la stampa
transalpina s'accodò alla protesta, toccando
le corde dell'onore offeso della
bandiera di Francia e accusando il governo
italiano di 'Violazione della territorialità".
Di rimando, alcuni giornali italiani
come L'Armonia e Il diritto arrivarono
ad incitare il governo a fucilare i prigionieri
e a restituirne i corpi per la tumulazione
"nelle tombe dei Reali di Francia".
Questa virulenta reazione rendeva evidente
che a Torino qualcuno non aveva
ancora digerito il precedente "affronto"
del Gulnara. Nel 1844, questo bastimento
sardo era stato costretto da una tempesta
ad un approdo forzato a Bastia. La
polizia francese ne aveva però subito
profittato, per arrestare un brigante corso
che era a bordo. A certi oltranzisti non
sembrava vero di poter rendere ora la
pariglia ai cugini francesi, tanto che la
discussione rimbalzò in Parlamento. A
conti fatti, dunque, per l'affaire Aunis il
governo italiano si trovò compresso tra
l'incudine francese e il martello dell'opposizione.
Dovette assumere di conseguenza
una posizione imbarazzata, in
quanto, checché ne pensasse Pasquale
Stanislao Mancini che ne assunse le difese,
le disposizioni dei trattati erano chiare.
…
La soluzione diplomatica
Sta
di fatto che il Consiglio del contenzioso
diplomatico il 19 luglio del '63 ritenne
che gli arrestati dovessero essere restituiti
alla Francia, suggerendo però all'Italia
di richiederne l'estradizione in base ad
una convenzione del 23 maggio 1838. Il
seguito si svolse di conseguenza. In
sostanza, i cinque ricercati passarono dal
carcere di Genova a quello di Chambery
e di lì, una volta estradati, finirono il 24
febbraio 1864 davanti alla
Corte d'assise di S. Maria
Capua Vetere.
Il processo ed il cacere duro
Il processo,
che ebbe una risonanza
enorme tale da imporre
l'uso di un'aula più grande,
fu condotto avanti a ritmi
davvero inconsueti perché
si concluse in un paio
di settimane appena. Inutilmente
l'ottimo collegio
di difesa degli imputati
s'industriò a smantellare le
testimonianze, poste a base
del castelletto d'accusa.
…
L'esito inevitabile fu la condanna a morte
per i fratelli La Gala e una serie variabile
di condanne detentive per gli altri
imputati minori. Si tacitava in tal modo
quella parte d'opinione pubblica, reclamante
il pugno di ferro contro i ribelli
meridionali che ancora s'opponevano
con le armi all'annessione. In realtà,
come ammise nel gennaio 1865 il ministro
di grazia e giustizia Vacca, c'era stato
un accordo sottobanco con la Francia
con la quale si stava per addivenire alla
Convenzione di settembre. In pratica,
venne fuori che l'Italia aveva assunto
l'impegno morale di salvar la vita ai
detenuti. Ciò spiega la ragione per cui la
domanda di grazia, avanzata dai due condannati
a morte, venne subitaneamente
commutata nei lavori forzati a vita.
...
Comunque sia, Giona
e Cipriano La Gala finirono i loro giorni
in bagni penali diversi (Portoferraio e
Genova), ma in condizioni di detenzione
identiche. E queste ultime furono tanto
orribili da far esclamare al Vismara che
le loro pene confinavano con le "sevizie".
Si pensi che la loro cella era lunga
due metri e larga 1.20, che luce e aria
giungevano solo da un finestrino della
porta e che il letto era un banco di pietra
con la latrina incorporata. Inoltre i condannati
portavano al piede una catena di
circa 20 chili, infissa nel muro e lunga
appena un metro. Insomma, la cancrena
era quasi scontata. La vigilanza poi non
dava tregua, essendo prevista un'ispezione
ogni tre ore, con divieto ai guardiani
di rivolgere la parola ai due carcerati. Un
inferno, dunque, che non concorreva certo
al ravvedimento e che faceva alla lunga
perdere memoria e favella a quei
sepolti vivi. Sentendo dalla voce di un
liberale, com'era indubbiamente il
Vismara, quali generi di "delizie" riservassero
le carceri dei Savoia ai detenuti,
vien da rabbrividire. E il pensiero corre
subito a quel lord Gladstone, che divenne
- ed è ancor oggi - un idolo per certa
gente proprio grazie alla descrizione delle
"terribili" carceri borboniche. Carceri,
che peraltro l'interessato impostore d'oltre
Manica in realtà mai ebbe a vedere.